Interview with Massimo Cernuschi

Monday 16 January 2023

Massimo Cernuschi, a doctor and infectious disease specialist, began volunteering with ASA in Milan in 1985.


Rachel Love: [00:00:01] Io sono Rachel Love e sono qua con Massimo Cernuschi. Siamo all’8 aprile ’22. Allora mi potresti raccontare delle tue prime esperienze con l’HIV e l’AIDS in Italia, o i tuoi ricordi dell’arrivo dell’AIDS in Italia?

Massimo Cernuschi: [00:00:30] Sì, ma aspetta che chiudo la porta.

Rachel Love: [00:00:33] Sì.

Massimo Cernuschi: [00:00:43] Non so. Devi dirmi tu che cosa devo dire, nel senso che io ho cominciato a occuparmi di malattie infettive prima che arrivasse l’HIV. Quindi ero già nel reparto malattie infettive come studente di medicina nell’81, quindi, prima che ci fosse l’HIV. Dall’84, ’85, in poi ci ho lavorato e ho cominciato a fare volontariato. Quindi non so che angolazione ti interessa.

Rachel Love: [00:01:19] Appunto, io sto lavorando su questo progetto di storia transnazionalista dell’HIV e AIDS. Io faccio la parte italiana e il mio direttore alla University di St. Andrews fa un lavoro sulla Grecia, la Germania e [il Regno Unito]. Insomma, io vorrei testimonianze della storia dell’HIV in Italia, però anche con un’attenzione ai rapporti transnazionali, nel senso di contatti tra gruppi di diversi paesi, l’arrivo di informazioni da altri paesi, così. Però, visto che la tua esperienza è quella di un medico che mi sembra—

Massimo Cernuschi: [00:02:17] Di medico gay che ha fatto volontariato dall’85 in un’associazione di persone gay che ha voluto cominciare a dare informazioni sull’HIV a chi non sapeva niente, quindi.

Rachel Love: [00:02:31] È una prospettiva preziosa, perché è una prospettiva da tre punti di vista, per dire. Per cui vorrei cominciare dall’inizio, magari dall’ASA nell’85, e qualsiasi cosa che tu ritenga importante da raccontare.

Massimo Cernuschi: [00:02:52] Nell’85 io facevo già, appunto, il medico—mi sono laureato l’84 in malattie infettive—in un reparto che era il reparto praticamente più importante d’Italia, credo anche ora, quello delle malattie infettive dell’ospedale Sacco, da dove è partita l’epidemia in Italia. Perché proprio i primi casi sono stati tutti concentrati intorno all’ospedale Sacco, perché c’era un centro per le tossicodipendenze che è stato colpito tra i primi in Italia. Quindi noi abbiamo cominciato a vederli da subito. Nell’85 sono stato contattato da questi ragazzi—allora ragazzi, adesso non più, ovviamente—che avevano deciso di rispondere alle persone in generale, ma più specificamente alle persone gay rispetto a cos’era l’HIV, che cosa bisognava fare, che cosa significava, come si trasmetteva, cosa succedeva a una persona con HIV. I primi che l’hanno fondato erano per lo più giornalisti che poi hanno seguito altre strade. Io sono entrato come medico e abbiamo cominciato questo lavoro di informazione al telefono. Da questo si è visto che c’era bisogno anche di un lavoro psicologico, di sostegno psicologico direttamente alle persone con HIV, e quindi di una strutturazione diversa dell’intervento. Quindi non più il telefono qualche ora alla settimana, ma uno spazio fisico dove puoi vedere le persone e sostenere le persone nel loro percorso. Quindi abbiamo avuto una sede tramite l’Arcigay, sempre qua in Ticinese, e poi sono partite tutta una serie di altri servizi, sostegno psicologico, gruppi di auto aiuto, che è stata la parte grossa, se vogliamo, dell’intervento dell’ASA, nel senso che erano dei gruppi chiusi di persone con HIV con un facilitatore, che si ritrovavano periodicamente, abbastanza frequentemente—adesso non mi ricordo se una volta alla settimana o ogni 15 giorni—a parlare delle loro problematiche. Chiusi nel senso che non entrava nessuno che non avesse l’HIV. Quindi era proprio un mondo molto a sé. Infatti io non avevo l’HIV allora e—non so come dire, ero in un mondo diverso, perché pur vivendo, lavorandoci, avendo amici che avevano HIV, non l’avevo e quindi la prospettiva era sicuramente molto diversa. A parte il lavoro di informazione col pubblico, anche televisioni, in giro per il mondo, abbiamo anche cominciato a fare l’assistenza domiciliare. Perché in quel periodo, prima di tutto, non c’era un’assistenza medico infermieristica pubblica alle persone con HIV al domicilio. Niente. Primo. Secondo, spesso queste persone, essendo molto emarginate perché lo stigma—c’è ancora adesso, però allora era molto, molto più forte. Erano persone sole, quindi avevano bisogno di tutto, spesso anche lasciate dalla famiglia, dagli amici.

Massimo Cernuschi: [00:06:44] Quindi il movimento ha messo in piedi un po’ questo modello di assistenza domiciliare che ricalcava quello dei Buddies negli Stati Uniti, cioè persone che andavano un paio d’ore al giorno a far compagnia, a far la spesa, a fare da mangiare, e persone che andavano a fare un intervento da professionista, quindi attaccare la flebo per quelli che avevano bisogno di questo. Ed è stato un periodo veramente intenso. Questi gruppi erano molto, molto, molto forti. Hanno cominciato a lavorare anche in carcere. Facevamo i gruppi di informazione, in questo caso, perché in carcere le persone ancora adesso non si dichiarano con l’HIV, soprattutto nei reparti dove ci sono i tossicodipendenti. È molto più facile che questo succeda nel raggio che noi chiamiamo dei protetti, cioè nel raggio chiuso, dove ci sono persone che non possono stare con le altre, quindi trans, gay, stupratori, preti, poliziotti, mafiosi. Quindi in questo raggio era più facile che la cosa uscisse.

Rispetto a quello che dicevi tu prima dei rapporti internazionali, li sono sempre stati. Per esempio, le coperte, il Names Project, che è diffuso in tutto il mondo. Le coperte sono state anche portate in giro per il mondo, le abbiamo portate a Washington per una volta. Io ricordo di essere stato a Parigi a un certo punto, perché c’era un evento in cui c’era AIDES, l’associazione francese. E vabbè, poteva lavorare molto meglio di noi, perché contrariamente a quello che è successo qua in Italia—che non c’è nessun, o comunque molto marginale, aiuto pubblico al lavoro delle associazioni che si occupano dell’HIV—là è tutto super finanziato, nel senso che lo Stato delega, come succede in Germania, per esempio. E da noi invece no, da noi dobbiamo trovare i soldi un po’ dove si riesce. Questo a grandi linee.

Rachel Love: [00:09:09] Ho visto anche Essepiù. Adesso sono al Cassero, a Bologna, a guardare le carte e ho letto Essepiù. Ho notato che c’erano parecchi articoli tradotti da materiali di altri posti.

Massimo Cernuschi: [00:09:30] Certo, certo, ma infatti io ovviamente avevo accesso alla letteratura scientifica. Anche perché per scrivere per le persone con HIV devi tradurlo in termini comprensibili. E quindi per evitare questa fatica io spesso andavo sui siti degli Stati Uniti, su quelli—Ce n’è uno che uso sempre, californiano, San Francisco AIDS Foundation, SFAF. Prendevo i pezzi da lì, nel senso che erano già tradotti in una lingua comprensibile a chi non fa il medico. Essendo medico ovviamente capivo immediatamente e quindi riuscivo a tradurlo facilmente però spessissimo basando sul quello, e poi un po’ sull’esperienza.

Rachel Love: [00:10:36] Dunque, due volte tradotti, dall’inglese all’italiano, ma anche dal linguaggio magari più scientifico a quello [più comprensibile].

Massimo Cernuschi: [00:10:45] Certo. Adesso la parte medica è meno richiesta. Perché adesso sinceramente il problema di gestione del trattamento dell’infezione di HIV non è più tanto un problema. I trattamenti sono abbastanza ben tollerati, sono semplici. Il lavoro è quello invece di informare, di portare avanti un discorso di lotta allo stigma, perché poi è quello che più conta. Anche il discorso dell’invecchiamento, però è un’altra cosa che esula un po’ da quello che è il lavoro dell’infettivologo. Più che altro adesso il lavoro è sullo stigma.

Rachel Love: [00:11:33] Magari ancora sulla prevenzione.

Massimo Cernuschi: [00:11:37] Sì, sì, certo.

Rachel Love: [00:11:40] C’erano sfide particolari nel contesto italiano? Già parlavi un po’ di questo.

Massimo Cernuschi: [00:11:51] Nel contesto italiano la sfida è sempre stata quella di parlare di sessualità. Con l’HIV a parte il discorso della tossicodipendenza, ma dietro c’è il discorso della sessualità, della sessualità al di fuori della coppia, della sessualità tra uomini. Quindi in questo Paese è sempre stato un incubo, una tragedia. Ma per dirti l’anno scorso—allora io partecipo anche come presidente dell’ASA a una commissione al ministero della Salute. C’è una commissione che insieme ai medici, sono nella parte dell’associazione, che elabora delle strategie, strategie di comunicazione ma anche strategie di intervento sul territorio. E l’anno scorso avevamo proposto una campagna per il 1º dicembre su U = U. Perché è l’unico modo per abbattere lo stigma. Se noi diciamo che le persone con HIV una volta che si curano sono più infettive, è finito il problema. Non finito il problema, però, finito il problema dello stigma, nel senso che una persona è più invogliata a fare il test perché comunque, una volta che fa il test, si cura, non infetta più nessuno. E dall’altro far sapere a tutti che chi ha l’HIV, se si cura, non può infettare nessun altro. Quindi è finito il problema della diffusione. Noi abbiamo chiesto questa cosa e c’è stato un progetto che è stato bloccato. L’abbiamo portata dalla commissione che si occupa di HIV del ministero della Salute alla parte di comunicazione del ministero e questa cosa è stata bloccata. Si è parlato come al solito della campagna di prevenzione, del preservativo, che sono cose che vanno bene, però sono vecchie, vecchie, vecchie. Non so come dire, oggi non ha senso. Cioè se noi vogliamo eliminare la parola stigma rispetto all’infezione HIV dobbiamo dire che chi ha l’HIV ed è in terapia è come tutte le altre persone. Punto. E questo non riusciamo a fare. Io ne ho parlato a un’altra riunione l’altro ieri, vediamo come andrà quest’anno.

Rachel Love: [00:14:12] E cosa spiega questa resistenza?

Massimo Cernuschi: [00:14:16] Ma il moralismo che c’è, moralismo di base cattolica di chi ci governa. Poi in realtà l’italiano medio abbiamo visto con i vari referendum è molto più progressista di quello che è il nostro governo. Perché l’italiano medio ha votato sì al divorzio, sì all’aborto, sono passate le unioni civili. Allora questo è per noi qualcosa di importante. Importante perché oltretutto molto contestato da tutta la parte più tradizionalista della politica italiana. L’Italia è il tipico paese in cui si fa, ma non si dice, no? A me non interessa, cioè ognuno può fare quello che vuole, però non facciamo finta di niente, voglio dire. Tutti contro la cannabis, tutti contro le droghe, i nostri governanti, poi si trova la polvere nei bagni del parlamento.

Rachel Love: [00:15:27] Parlavi di andare di persona a raccogliere materiale. Andavi anche a conferenze, i convegni?

Massimo Cernuschi: [00:15:39] Certo, certo. E poi c’erano due strade, nel senso che io mi sono sempre occupato qua in associazione della parte più propriamente medica. La parte associativa la facevano altri, perché era una cosa diversa lavorare tra associazioni per costruire dei percorsi comuni e andare a capire che cosa succedeva dal punto di vista medico. Quindi quella parte, tranne che negli ultimi anni, prima io non l’ho mai fatta. Forse ne sa qualcosa di più Marinella [Zetti], ma io non ho mai interagito molto—magari sì con delle associazioni in Italia, però devo dire questo lo sto facendo da qualche anno, da cinque, sei anni, un po’ di più. Interazione al livello del ministero, poi su una serie di altre cose che ci sono in Italia in cui le associazioni hanno cominciato un po’ a parlarsi e a lavorare insieme su certi percorsi.

Rachel Love: [00:16:51] Come reagiva la comunità medica ai tempi? Cosa era l’atmosfera?

Massimo Cernuschi: [00:17:03] Allora, se parliamo degli anni ’80, allora intanto chi si muoveva correttamente erano pochi medici, quelli che si occupavano di HIV, quindi gli infettivologi che non avevano paura di lavorare con le persone con HIV. Nel resto della classe medica—tanti dentisti si rifiutavano di intervenire sulle persone con HIV. Ma ancora oggi una persona con HIV che deve fare un intervento chirurgico viene lasciata alla fine della giornata. Questa è l’Italia. Benvenuta. È successo a me. Nel senso che io ho l’HIV dal 2009, io ho fatto un intervento al naso perché avevo un polipo, nel mio ospedale, quindi con dei colleghi. E sono stato digiuno dalla mattina alla sera, fino alle 17:00. Perché mi hanno lasciato per ultimo. Ero ultimo, senza nessuna ragione.

Rachel Love: [00:18:14] Persone che conosceva poi, colleghi.

Massimo Cernuschi: [00:18:19] Esatto. Sì, sì. Questo è folle ancora oggi. Allora, obiettivamente, i medici si rifiutavano di intervenire, i chirurghi soprattutto. Ma anche adesso non è così facile, non è così facile. Per questo continuiamo a insistere su U=U, perché è l’unico modo per dire basta. Poi, tra l’altro, sempre al ministero nel 2019, mi sembra, era prima del Covid, è stata fatta una consensus conference al ministero a Roma, la trovi online, dove si è proprio definito, scritto nero su bianco, che cosa significa U=U, che le persone non possono infettare, e le linee guida che noi dobbiamo seguire se qualcuno si punge sul lavoro, se qualcuno ha rapporti non protetti. tutto scritto ufficialmente dal ministero. Quindi è qualcosa di pubblicato dal Ministero della Salute italiano, della qual cosa non possiamo parlare pubblicamente a livello di comunicazione per il primo di dicembre, quindi, questa è l’Italia.

Rachel Love: [00:19:41] È il ministero stesso che vieta.

Massimo Cernuschi: [00:19:45] Si, la sezione comunicazione del ministero.

Rachel Love: [00:19:51] Dev’essere stancante?

Massimo Cernuschi: [00:19:55] No, no, è faticosissimo. Però vabbè, noi continuiamo. Poi tra l’altro negli ultimi anni abbiamo cominciato a fare un lavoro, cose diverse, nel senso che da quando sono disponibili anche qua da noi test rapidi per HIV, che erano stati sviluppati soprattutto per andare nei villaggi nella campagna dell’Africa, abbiamo cominciato a farlo sia in tante associazioni in Italia, sia nei locali di aggregazione, in strada. Stiamo facendo un grosso lavoro di testing sia sulla popolazione generale, dove comunque il messaggio della prevenzione lo passi attraverso il counseling che viene sempre fatto prima o eventualmente dopo il test. Perché è questo quello che cambia tra fare il test in ospedale e fare il test con noi, che c’è qualcuno a cui racconti la tua storia, qualcuno che ti dice che cosa hai fatto e come puoi far meglio, che paura devi toglierti. Insomma, fare un discorso un po’ più sulla tua sessualità. E da cinque anni abbiamo cominciato a fare—prima qui in ASA e poi adesso lo facciamo al Check Point che è una cosa fatta dalle associazioni insieme—la Prep, nel senso che gestiamo la Prep per un gruppo abbastanza grosso di persone. Fai conto che noi abbiamo 500, 600 persone che vengono lì al Check Point, il centro più grosso d’Italia, ed è un centro non ospedaliero, cioè un centro gestito da volontari delle associazioni dove non c’è un finanziamento pubblico. Niente.

Rachel Love: [00:21:59] C’è mai stato?

Massimo Cernuschi: [00:22:01] No. C’è stato un periodo all’inizio. Il Comune ci aveva dato una sede dove lavorare. Però poi la cosa si è persa perché è arrivato il Covid, non si poteva più lavorare lì e poi pian piano siamo finiti in questo posto dove paghiamo l’affitto. Però questo stiamo facendo ed è una cosa molto bella. Però, per dire, in Italia noi non abbiamo ancora la Prep gratuita. Ogni regione ha delle regole diverse per i test periodici, cioè tutto molto—E adesso abbiamo chiesto per l’ennesima volta di avere la Prep gratuitamente insieme ai sanitari. Ci è stato detto di produrre la documentazione. No, allora la documentazione l’abbiamo prodotta nel 2019. Io parlo del Check Point che è il centro più grosso con 500 persone, nel paesino della campagna francese ci sono 500 persone che fanno la Prep e la seguono i medici di base. A Londra, la fa chiunque. Se io parlo a uno non italiano e dico ah, son contento perché vediamo 500, 600 persone, questo mi guarda e mi dice, “Vabbè ma di cosa stiamo parlando? Noi ne abbiamo 50.000.” E questa è l’Italia. Considerando che poi, essendo la Prep molto importante nelle persone che sono più marginali, quindi chi non ha un lavoro, quelli più giovani, gli immigrati, e se devono pagarsi 60€ di questo al mese non lo faranno mai. Il rischio è che si prendano HIV. Capisci? Roba da matti.

Rachel Love: [00:24:07] Ma venendo dal Check Point possono averlo gratuitamente?

Massimo Cernuschi: [00:24:12] E in realtà noi siamo riusciti ad avere un po’ di farmaci—Da noi è gratuito tutto, tranne il farmaco. Esiste una specie di studio clinico che parte dallo Spallanzani di Roma, per cui c’è un po’ di farmaco che noi possiamo dare alle persone e ovviamente cerchiamo di darlo a quelli che ne hanno più bisogno, quindi più giovani, quelli che non hanno un lavoro, in qualche modo lo facciamo. Però no, nel senso che noi non possiamo pagarlo. Cioè per ogni persona, per ogni persona che viene noi spendiamo—Quindi il test della HIV, della sifilide, e dell’epatite C, della clamidia, spendiamo 50€, 60€ a persona. Contando che sono almeno dieci, anche di più, mettiamoci tra 40 e 50 alla settimana, capisci quanti soldi dobbiamo recuperare.

Rachel Love: [00:25:28] Anche negli anni ’80 e ’90 l’ASA ha cercato di raggiungere le persone più emarginate?

Massimo Cernuschi: [00:25:38] Allora le associazioni, non avendo finanziamenti e una strutturazione diffusa sul territorio, raggiungono la popolazione che sanno raggiungere. Quindi noi partivamo come associazione gay e quindi abbiamo lavorato principalmente su quello. Perché abbiamo sempre fatto quello che potevamo fare, che sapevamo fare, quindi, mentre altre associazioni si sono occupate un po’ di più dell’immigrato, delle persone trans, del tossicodipendente. È chiaro che se arriva qua da noi una persona trans, un ragazzo che si faceva, va bene, assolutamente. Però è sempre stato più probabile che arrivassero ragazzi gay qua da noi. Ma perché ognuno ha le sue caratteristiche. Cioè ogni associazione ha un suo target, ma che viene da quello che costituisce l’associazione.

Rachel Love: [00:26:55] Sì, anche magari con questa mancanza di sostegno costante e affidabile, il lavoro era necessariamente un po’ a pezzi.

Massimo Cernuschi: [00:27:10] No, sicuro, ma anche le campagne informative—perché noi chiediamo che la faccia il ministero, perché non ha senso basarsi solamente su quello che facciamo noi qui. Io posso informare, va bene, faccio una campagna, però raggiungo poche persone, non sono la televisione di stato italiana che può trasmettere a tutti un messaggio. E quindi è veramente difficile, molto difficile, soprattutto sull’informazione. All’inizio era anche peggio, nel senso che all’inizio negli anni ’80 l’informazione del ministero era proprio di demonizzazione delle persone con HIV, la linea viola, queste cose qua. Ed era proprio, se vogliamo, un sistema facile per bloccare le persone, mettere un cordone intorno alle persone che avevano l’HIV, terrorizzare la popolazione in maniera che non stessero vicini a questi poveri disgraziati. Se vogliamo cost effective, però non va bene, non è assolutamente corretto. Ed è sempre stato un po’ così.

Rachel Love: [00:28:35] Come la lettera di Donat-Cattin.

Massimo Cernuschi: [00:28:39] Sì. Tu hai avuto la documentazione, il libro l’hai avuto?

Rachel Love: [00:28:45] No, sto guardando Essepiù, le riviste originali al Cassero, però se vengo a Milano, poi sicuramente.

Massimo Cernuschi: [00:28:56] Poi c’è tutto il materiale della mostra dei 40 anni dell’HIV che abbiamo fatto. Tu quanto ti fermi qua?

Rachel Love: [00:29:03] Sono qua fino a fine aprile, per cui sì, verrò a Milano.

Massimo Cernuschi: [00:29:09] Vieni, poi parli con Marinella. Vedi poi se questa mostra che noi abbiamo fatto, non so che materiale ci sia in giro, abbiamo fatto una mostra molto bella sulla storia dell’HIV ma lato attivismo, il lato medico, evoluzione clinica, la parte che riguarda di più la community. E questa mostra noi la rifaremo al Congresso che ci sarà sull’HIV a Bergamo 14-16 giugno.

Rachel Love: [00:29:44] Ah, ok, sì, vediamo. Sicuramente seguirò gli sviluppi.

Massimo Cernuschi: [00:29:55] Perché poi, tra l’altro questo congresso—per dirti come sono cambiate le cose con gli anni—questo Congresso si chiama ICAR [Italian Conference on AIDS and Antiviral Research], è un congresso dove si uniscono proprio le esperienze dei medici con quelle degli attivisti. Su un sacco di cose lavorano anche insieme, devo dire si parlano e costruiscono molto più insieme che prima. Quindi per noi  molto, molto cambiato, perché prima erano due mondi abbastanza staccati. Adesso si lavora anche meglio. Tra l’altro quest’anno ci sono quattro presidenti di questo convegno, tre medici e uno che viene dalla parte community, e io sono presidente dalla parte della community. Quindi c’è anche questa cosa per cui sei direttamente coinvolto nell’organizzazione e nella gestione di un convegno scientifico sull’HIV in Italia. Succede già ovunque nel mondo, però per noi è qualcosa di abbastanza recente.

Rachel Love: [00:31:10] E prima non c’era questa comunicazione tra la comunità medica e [gli attivisti]?

Massimo Cernuschi: [00:31:15] Molto meno.

Rachel Love: [00:31:20] Aveva un impatto questa cosa?

Massimo Cernuschi: [00:31:24] Beh, sicuramente perché è sempre stato molto un rapporto conflittuale, rivendicativo. Anche perché il medico, non tutti, però la maggior parte dei medici tende a stare molto dalla sua parte, molto distaccato da quelle che sono le problematiche della persona di cui segue la storia clinica, il trattamento. È chiaro che come medico, posso parlarti come medico, devi in qualche modo staccarti, però non puoi neanche farlo completamente, nel senso che tu hai davanti una persona, devi capire chi hai davanti. Non puoi trattare tutti nella stessa maniera, quindi un pochino la barriera la tiri giù. Però comunque devi avere un altro tipo di ruolo, non completamente amico, ma se il medico ti capisce magari un po’ di più—comunque adesso le cose sono sicuramente molto meglio.

Rachel Love: [00:32:35] L’attivista o l’associazione vede direttamente la vita quotidiana delle persone, così possono informare la comunità medica meglio.

Massimo Cernuschi: [00:32:52] Certo, però comunque sei diverso, no? Quando poi è capitato a me nel 2009, io non ho mai nascosto all’inizio—nascondere e dire pubblicamente sono due cose diverse. A un certo punto ho cominciato a dirlo pubblicamente ed è stato molto strano il rapporto con i colleghi, non dico i miei con cui lavoro, ma i colleghi in giro per l’Italia perché si vedeva proprio una differenza quando ci si salutava. Con le donne che facevano un po’ quelle che dicevano “Ah, ma come stai? Come va?” Ti vedevano già morto. Gli uomini invece molto più “imbarazzati” tra virgolette, forse anche perché in quel modo era chiaro che io ero anche gay. Si sapeva, lo sapevano tutti, no ho mai nascosto niente a nessuno. Però un conto è far finta, e un conto è mettere lì, essere chiaramente in un certo modo. Però adesso va tutto bene per il momento. E poi in questo modo hai anche—io da quel momento in poi ho avuto più, non so come dire—me è cambiato tutto, tutto anche come voglia di fare, nel senso che fino a lì, se vuoi, facevo un po’ il fiancheggiatore delle persone con HIV, però non essendoci dentro completamente. La volta che ci stai dentro, anche il discorso dello stigma, la lotta allo stigma, lo capisci molto di più. Io non ho mai avuto problemi, se ho avuto problemi ho reagito in maniera decisa, tu mi stigmatizza, io ti faccio un culo così. Ed è un po’ quello che cerco di portare alle persone che incontriamo anche qui, quando facciamo gruppi di auto aiuto—adesso non c’è più gruppo del tempo, c’è un gruppo aperto dove chi ha l’HIV viene a raccontare la sua storia, si chiacchiera di come uno vive, è molto cambiato. Adesso il discorso non gira più intorno alla morte che ti aspetta dietro l’angolo, ma più sulla sessualità, sulla affettività. Lo stigma, quello che ti blocca, il rapporto con gli altri, il rapporto affettivo, il rapporto sessuale. E qui è cambiato tanto anche questo.

Rachel Love: [00:35:59] Quando dici aperto, è aperto anche alle persone sieronegative?

Massimo Cernuschi: [00:36:06] No, aperto nel senso che prima, per entrare nel gruppo dell’auto aiuto dovevi fare un colloquio con chi faceva la moderazione e questa persona doveva capire se tu eri “adatto,” a partecipare a un gruppo del genere, cioè se non eri troppo depresso, psichiatrico o insomma non compatibile con le altre persone. Adesso le persone con HIV che vogliono venire vengono il secondo martedì del mese, di sera, ci si saluta e parlano se vogliono parlare, ascoltano se vogliono ascoltare. Le persone senza l’HIV vengono ma in determinate situazioni, tipo chi vuole essere accompagnato dall’amico del cuore, chi vuole essere accompagnato dalla fidanzata o fidanzato sieronegativo. La mamma, insomma, o il medico che vuole partecipare. Però in questo caso, se vuole partecipare un medico si chiede prima l’autorizzazione alle persone del gruppo, cioè non entra una persona senza l’HIV senza il permesso degli altri.

Rachel Love: [00:37:21] Ha senso, tipo le persone direttamente coinvolte. Hai visto l’impatto di questi gruppi di auto aiuto negli anni ’80 e ’90?

Massimo Cernuschi: [00:37:47] Sai, lì era un discorso proprio di solidarietà in un percorso difficile. Io non posso parlare di quello perché io non li ho fatti quei gruppi, non c’ero. Però dall’esterno quello che si vedeva era proprio il fatto che comunque ci fosse affiatamento, affettività, ci fosse aiuto, proprio aiuto tra le persone che partecipavano anche all’esterno del gruppo. Quindi era un nostro approccio forse un po’ più approfondito alla socialità che queste persone potevano avere. Però, ripeto, io non c’ero dentro, quindi non posso dire niente di particolare. E adesso è, ognuno parla dei suoi problemi, ma principalmente quello. In questi gruppi io cerco di non fare il medico, cioè non parlo di terapie. Nel senso nel gruppo che abbiamo adesso secondo martedì del mese, partecipo abbastanza spesso però non partecipo come medico, perché non voglio fare il medico in quella sede. Non è l’oggetto del discorso. Cioè il discorso è lo stigma, parlare della propria esperienza. Se c’è da dire qualcosa di medico si dice, però non è la lezioncina sui farmaci, sulla terapia, il numero di CD4—

Rachel Love: [00:39:39] Magari anche per te è un sollievo.

Massimo Cernuschi: [00:39:48] A me serve, a me serve da un lato. Ognuno cerca di portare la sua esperienza, l’esperienza di non nascondere, di dire, di essere chiari, di non farsi maltrattare dalle persone che discriminano. Se vuoi, a grandi linee, è questo un po’ quello che cerco di riportare. Concentrarsi sul numero dei CD4, su queste cose qua, sono follie.

Rachel Love: [00:40:31] C’è qualche cosa di cui non abbiamo parlato che vorresti far sapere sulla storia dell’HIV in Italia o sulle tue esperienze come attivista, medico, persona sieropositiva?

Massimo Cernuschi: [00:40:48] Non saprei. Sono tanti anni che questa cosa—io devo dire che come medico sono cresciuto tantissimo grazie a questa parte più sociale. Perché comunque negli anni ’80, ’90 un medico doveva imparare con l’Aids a un certo punto ad accettare di aver perso la battaglia. Il paziente, la persona che stai seguendo sta morendo. Ok, questo è quello che prima o poi succede. E quindi capisci che devi accompagnare la persona in un altro modo. E questo io l’ho imparato qui. Non l’ho imparato in ospedale, perché in ospedale in generale c’è molto accanimento, soprattutto qua in Italia. Prima accanimento perché un medico non accetta di perdere. Poi accanimento perché il medico ha paura, dare la morfina significa chiudere e quindi spingere la persona dall’altra parte. Tutte cose che qua da noi sono sempre state molto difficili, molto difficili da gestire e molto difficili per un medico ad accettare. Quindi qua sinceramente era proprio per dare un’altra qualità della vita alle persone. Cioè si andava ad accompagnare la persona al cinema o a fare la spesa perché era quello l’importante. Era importante fare due chiacchiere con qualcuno, importante andare nel parco a prendere un po’ d’aria più che la terapia, perché era quello che mancava a quella persona e su cui si poteva fare qualcosa. Sui trattamenti a un certo punto non c’era niente da fare. E questo sicuramente ho imparato qui e non lì.

Rachel Love: [00:43:15] Sì. È un’esperienza di condivisione e solidarietà.

Massimo Cernuschi: [00:43:22] Esatto. Questa parola è una parola fondamentale rispetto al lavoro della community e al lavoro in associazione. Perché una persona entra in una associazione? Per condividere delle cose con gli altri. Per crescere e far crescere le altre persone. Per me non ha senso andare a fare la flebo al vicino di casa perché mi è simpatico. No, non mi interessa. Non è questo. Cioè l’importante è fare le cose, passare delle conoscenze e ricevere delle cose degli altri lavorandoci insieme. Se no, non vieni in associazione. Uno viene perché ha bisogno più che di dare di ricevere, secondo me. Non c’è chi viene in associazione perché è buono e basta. No, viene in associazione—ma un’associazione qualunque, parliamo di qualsiasi cosa, anche quelle che si occupano di cani abbandonati—perché ha anche voglia di ricevere qualcosa. E quindi niente. La condivisione è la base di tutto. Se non funziona non serve a niente.


Transcript of interview on 8 April 2022

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