Interview with Pia Covre

Monday 16 January 2023

Pia Covre was born in Milan in 1947. She is a co-founder of the Comitato per i diritti civili delle prostitute (CDCP), an early participant in LILA and TAMPEP, the European Network for the Promotion of Rights and Health among Migrant Sex Workers.


Rachel Love: [00:00:00] Sono Rachel Love e sono qua con Pia Covre, il 13 aprile 2022. Mi volevi raccontare dalla campagna [del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute] “Fallo ma protetto.”

Pia Covre: [00:00:21] Praticamente il ’95, ’96 siamo state contattate da una società di pubblicità che aveva la possibilità di farci gratuitamente una campagna con degli spazi giornalistici gratuiti. Quindi ci ha fatto delle proposte e abbiamo accettato. Abbiamo accettato perché poi abbiamo potuto lavorare al concetto di questa campagna. Quindi loro avevano preparato degli slogan, i giovani dell’agenzia. L’agenzia si chiama Bates, fa grandi campagne nazionali. Comunque abbiamo potuto lavorare sugli slogan, eccetera, e quindi è stato deciso di fare sia dei grandissimi poster stradali, alcuni davvero grandi come quello a parete, pazzeschi, e alcuni come quelli che hai visto un po’ più piccoli fino al formato poster normale. E sono stati 3 o 4 disegni, tutti riferiti sulla prostituzione e il cliente, ed erano messaggi rivolti al cliente. Quindi lo slogan principale era il preservativo, condom, “Un nostro diritto, un tuo dovere.” E poi c’erano questi slogan un po’ strani del tipo, “Tutti i clienti senza, ce l’hanno piccolo,” senza condom intendevamo, piccolo il cervello. È stata pubblicata su molti giornali, poi ce ne erano altri due che adesso non ricordo

Non te le ho fatte vedere, ma una che metteva anche in discussione l’attitudine del cliente ad imporre la propria volontà. E sono state pubblicati sulla cartellonistica stradale in alcune città, alcune a pagamento, alcune dove abbiamo anche trovato delle amministrazioni pubbliche che ci hanno dato gli spazi gratuiti, e alcune poi sono state pubblicate alcune pagine sui giornali, quindi ha fatto molta sensazione questa campagna. In più era accompagnata, con gli stessi slogan, dalle bustine piccole dove infilavamo un preservativo e si davano alle ragazze quando si andava a fare outreach in strada, per sensibilizzare. Noi abbiamo sempre distribuito condom durante tutta la storia delle nostre attività a cominciare dalla fine degli anni ’80, quando si è cominciato a fare campagne o comunque sensibilizzazione con le nostre colleghe per l’utilizzo del condom nella prevenzione all’AIDS. Abbiamo sempre distribuito condom, che in Italia non erano cosa proprio facile, quindi anche in questa campagna sono stati collegati i condom. Ma questa cosa ha fatto molto scalpore sui media. Qualcuno ha tentato di censurarla, come sempre.

Rachel Love: [00:03:33] C’era anche una risposta positiva?

Pia Covre: [00:03:36] Certo, ci sono stati articoli, ovviamente molti articoli sulla stampa all’epoca sono stati alcuni positivi, alcuni negativi, alcuni che criticavano il moralismo di certe città dove qualcuno dell’ufficio comunale cercava di boicottare le affissioni, perché sai che per mettere la cartellonistica stradale bisogna passare e portare tre copie all’ufficio addetto e ci sono stati degli uffici che si sono rifiutati con pretesti di spazio. Però la maggioranza sono state pubblicate, diffuse, ed hanno avuto un esito sicuramente positivo. Devi pensare che in quegli anni in Italia non esistevano delle grandi campagne. Lo stato con il Ministero della Sanità aveva cominciato e ogni due anni avrebbe dovuto lanciare una campagna, ci sono stati anche degli scandali notevoli, perché le società a cui affidavano il compito sono fallite, se ne sono andate coi soldi, non hanno fatto i materiali. Insomma, un po’ di scandali. Noi abbiamo partecipato a una campagna, la prima che ha fatto il ministero della Sanità e che cercava di raggiungere i gruppi target. Quindi sul lavoro sessuale, quello che loro chiamano prostituzione, la chiamavano così, ci hanno affidato una campagna dove sono stati fatti dei volantini su nostra indicazione anche, ma sempre nei limiti di quello che era accettabile per il ministero, e noi dovevamo divulgare. Li abbiamo divulgati attraverso il lavoro di outreach non solo noi, ma anche con una rete di associazioni che facevano come noi il lavoro di strada, perché già nel ’95, ’96 si sono cominciate a fare attività di strada. Altri gruppi e associazioni oltre al nostro, anzi abbiamo collaborato con moltissime municipalità per mettere in piedi questo lavoro di outreach nella loro città. Rimini, ad esempio, Bologna, Modena, Reggio Emilia. Sono tutte cose che poi hanno anche istituzionalizzato, ma all’inizio erano progetti speciali con un piccolo finanziamento e affidavano a noi di cominciare. Quindi abbiamo cominciato in tante città e poi le lasciavamo perché andavamo altrove cominciando un’altra. Quindi una volta che era aperto la cosa funzionava con operatori locali, altre sex worker locali. Bologna l’ha preso il MIT, il MIT ancora oggi sta facendo un progetto di outreach che era nato con noi nel ’95, ’96.

Rachel Love: [00:06:12] Avete seminato un po’ i lavori e poi—

Pia Covre: [00:06:16] Sì. In questo senso credo che il nostro lavoro, al di là dei mezzi che avevamo—che ne avevamo pochi negli anni, alla fine degli anni ’80 non avevamo risorse, facevamo i volantini in casa, però avevamo un camper nostro di proprietà che usavamo per lavorare, io e Carla, e con quello andavamo, ci chiamavano i colleghi di Parma, oppure di Como, Lecco, la Lombardia, e andavamo lì con volantini, materiali, e con le ragazze del luogo che salivano con noi. E contattavamo tutte quelle che stavano in strada per spiegare, ovviamente, per fare la prevenzione all’Aids, davamo i preservativi. E soprattutto anche per spiegarle le rivendicazioni, perché come associazione noi chiedevamo una modifica della legge. Erano tutte d’accordo, erano tutte piene di provvedimenti e restrizioni di polizia terribili per cercare di limitare il lavoro sessuale e la libertà di movimento di queste donne. Quindi, insomma, era un terreno anche molto facile da sensibilizzare.

Un po’ più complicato è stato con le persone tossicodipendenti. I primi anni ad esempio, il primo volantino che abbiamo fatto legato a questa ricerca che avevamo fatto con il CRO (Centro di riferimento oncologico, la ricerca fu pubblicata su Lancet) dove c’era questa sezione che lavorava sull’Aids–parlo degli anni ’80, proprio primissimi–abbiamo fatto un volantino semplice, scritto, proprio fatto in casa, ciclostilato, e lo davamo sia ai clienti che a tutte le colleghe.

E io mi ricordo qui che noi eravamo un gruppo in città a Pordenone, eravamo poche, siamo state forse in tutto quindici, neanche venti donne, forse. Ma comunque era nata qui la storia del Comitato e la rivolta contro la base NATO americana. Abbiamo scritto alla base NATO dicendo, “Fate schifo!” Questa è un fatto che io lo ricordo sempre, perché in tempi di guerra come ora va ricordato. Proprio la nostra prima lamentela è stata quella. Noi siamo nate così, facendo una protesta contro i militari della base NATO di Aviano, sì. E questa cosa ha avuto una tale risonanza universale, direi, perché tutti si sono chiesti cosa sta succedendo in Italia? Delle prostitute attaccano la base NATO? Non è facile, non trovi facilmente gruppi che si mettono contro. Certo, gli anarchici facevano battaglie contro la NATO, ma nessuno gli dava credito, anzi li vedevano come terroristi. Il fatto che un gruppo di puttane, di strada per di più, facessero questa cosa ha fatto molto scalpore. Ed era perché erano aggressivi e violenti. Avevano violentato alcune colleghe, venivano ubriachi, buttavano le bottiglie e ti tiravano le bottiglie addosso. Il fine settimana era veramente un delirio.

Rachel Love: [00:09:03] I soldati americani?

Pia Covre: [00:09:04] Sì. E quasi nessuno di noi andava con loro. Non erano clienti buoni. Però per le tossicodipendenti erano comunque clienti—infatti c’era un’amica che era una tossicodipendente, e un paio di volte è stata aggredita. Una volta è stata presa da uno, portata in un luogo appartato, dov’è venuto fuori un gruppo di uomini, l’hanno violentata, tutti americani, e poi un’altra volta invece l’hanno trascinata sulla strada, non so come, hanno chiuso la porta, hanno impigliato la sua borsetta, e sono partiti. L’hanno praticamente trascinata per strada. Quindi a questa cosa abbiamo detto non è pensabile che si continua così. Facciamo una bella protesta. Dopo la protesta non vennero più. Passava la polizia militare della base a controllare che non ci fossero americani in giro. Hanno fatto un ordine di servizio dove dicevano di non frequentare le prostitute in città.

Rachel Love: [00:10:03] E questa è stata la nascita del Comitato?

Pia Covre: [00:10:05] Sì, e quando abbiamo visto quale risonanza c’era, abbiamo detto scusa, ma facciamo anche due rivendicazioni su quello che noi vorremmo, una legge più giusta. E quindi abbiamo cominciato a fare questa lotta e abbiamo visto che avevamo una platea a cui parlare. Anche i politici, ovviamente i partiti politici, tutta questa gente hanno detto, “Ah sì, ma va bene.” Anche perché c’era qualcuno che voleva cambiare la legge, che in realtà non è mai cambiata, è sempre quella. Però è stato, diciamo, il via molto sensazionale. E quindi poi ci siamo messi a lavorare con questo gruppo di questo ospedale specializzato sull’HIV, dove era l’unico qui che faceva i test, le terapie. Beh, le terapie sono arrivate dopo, ma insomma che ricoverava le persone. E il volantino che abbiamo fatto lo davamo a tutte le tossicodipendenti che erano un numero, saranno state la metà, forse su una quindicina di donne, sono state cinque o sei tossicodipendenti e le altre erano delle professioniste come noi che facevano quel lavoro e basta. Però le tossicodipendenti si sono trovate in difficoltà perché il lavoro che loro facevano era un lavoro sporco, come diciamo noi in gergo, nel senso che per il bisogno di comprarsi la dose accettavano sesso a rischio —allora erano gli anni dell’eroina, quindi c’è stata un sacco di gente morta, ovviamente sia per l’eroina che per l’HIV. E a quel tempo loro cominciavano ad essere emarginate dai clienti, nel senso che i clienti si sono resi conto del rischio. Sai nei primi anni, la gente diceva che fosse un problema dei gay e dei tossicodipendenti. E allora noi abbiamo detto no, è un problema di chiunque abbia rapporti sessuali, è scambio di sangue, quindi ci può coinvolgere tutti in un momento. Ci basta poco per passare da una collega, magari tossicodipendente, che si è già infettata con la siringa, e poi infettare un cliente, il quale poi viene con una di noi.

Quindi abbiamo fatto dei workshop, eccetera. Però loro che si facevano, come dire, erano abbastanza disinteressate a questo attivismo perché avevano da preoccuparsi di comprarsi la roba. E hanno cominciato anche loro a venire a chiederci volantini da distribuire ai clienti. Perché hanno detto, “Perché se no i clienti pensano che io, se non faccio le stesse cose che fate voi, che non sono pulita, non mi comprano più, non pagano più.” E quindi è stato un lavoro anche di convincimento con loro che era comunque più difficile perché la loro condizione era molto più difficile e precaria della nostra. Nel giro di pochi anni, nei primi anni dell’Aids, queste sono quasi tutte morte qui a Pordenone, ma anche nelle altre città. Quindi sono andate un po’ diminuendo, l’uso del preservativo è molto aumentato. Ma già in quella ricerca che abbiamo fatto quell’anno, che poi pubblicò LILA, noi avevamo un numero molto alto di l’uso del preservativo. Infatti le prostitute che si siano ammalati di Aids sono poche, diciamo le “professioniste,” fra virgolette. È successo per le tossicodipendenti, dove probabilmente lo scambio delle siringhe era una cosa che le ha ammalate molto e poi molto con le transessuali e le transgender, ad esempio. Ancora adesso i numeri, se si va a leggere le statistiche, la comunità delle trans, soprattutto straniere, in particolare dei paesi dell’America Latina, molto spesso hanno l’HIV. […]

Quindi questa situazione. Poi nei primi anni ’90 sono cominciate ad arrivare le prime ondate di immigrazione dall’Africa, soprattutto dalla Nigeria. Noi in Italia abbiamo avuto un afflusso soprattutto a Torino, dove noi abbiamo aperto questo lavoro con TAMPEP e quindi a Torino abbiamo incominciato un lavoro sulle strade, fatto soprattutto con tantissime donne nigeriane. Abbiamo capito che bisognava fare dei materiali adeguati, interventi adeguati, eccetera. Poi sono arrivate le albanesi dall’ex Unione Sovietica, e tutte le altre dell’est. Le nigeriane sono state un flusso continuo, comunque, e anche lì abbiamo dovuto fare molto sulla parte della sanità.

Rachel Love: [00:14:54] E come avete coinvolto queste comunità? Il lavoro quotidiano di outreach come funzionava?

Pia Covre: [00:15:03] Noi abbiamo sempre fatto teams di outreach multidisciplinari, se era possibile, da una sex worker, due sex worker, dipende da quello che trovavamo sul territorio, da operatori sociali che erano già formati. Per esempio, a Venezia abbiamo lavorato con alcuni che facevano già un servizio di strada per l’accattonaggio e per i senzatetto. A Torino abbiamo lavorato con operatori che lavoravano con la comunità Rom, con i migranti vari. Quindi abbiamo cercato di coinvolgere persone che fossero già sensibili e abbiamo fatto della formazione, ovviamente. Abbiamo fatto molto training, molta formazione, per formare questi operatori e operatrici, quasi sempre donne. Abbiamo usato molto operatrici, donne, pochissimo i maschi, tuttora. Perché pensiamo che la maggioranza di persone che incontriamo sono donne, ed è più confidenziale con le donne incontrarsi. E abbiamo fatto della formazione per spiegare tutto quello che riguarda il lavoro sessuale, cioè quali sono i punti di debolezza o come fare a difendersi dai clienti, ad esempio, come contrattare meglio le prestazioni, ad esempio, cose un po’ banali. Ad esempio noi abbiamo fatto un grande lavoro per insegnare alle operatrici, agli operatori che non erano sex worker come si fa a gestire il lavoro, per esempio, se tu hai il periodo del ciclo mestruale però vuoi lavorare lo stesso—perché molte donne non possono farne a meno, se pensi a quelle che hanno i debiti da pagare, i papponi sfruttatori, queste sono costrette—allora tutti i piccoli sotterfugi per come nascondere al cliente che hai le mestruazioni, cosa usare per la vagina, ad esempio mi ricordo il diaframma usavamo all’epoca, che non si usa più, ma dall’America arrivava questa cosa meravigliosa che fu il diaframma negli anni ’80, ’70. Noi poi siamo sempre state delle grandi sostenitrici, perché noi l’abbiamo usato per anni proprio anche nei nostri rapporti, normalmente per la contraccezione e quindi quando avevamo le mestruazioni, oltre al condom usavamo anche il diaframma, perché così la coppetta teneva il sangue, non si vedeva, si poteva lavorare anche con le mestruazioni—oppure con i tamponi dentro, insomma, questo lo facevano le olandesi.

Beh, abbiamo divulgato questa che era la conoscenza, diciamo, del mestiere, e lo abbiamo insegnato alle altre, agli operatori, per cui quando si trovavano a parlare che si andava per strada a contattare queste ragazze sapevano quali argomenti affrontare—abbiamo anche sempre una mediatrice linguistica e culturale e spesso le nostre mediatrici venivano dal mercato della prostituzione. Noi abbiamo lavorato per anni nelle varie città, e quando incontriamo una donna, una ragazza particolarmente predisposta che vediamo che ci sta volentieri e può prendere il suo tempo per fare questo, facevamo dei piccoli corsi di formazione interna nostra e insegnavamo tutte questi stratagemmi che magari lei non sapeva.

Poi insegnavamo tutte le cose che riguardavano, ad esempio le leggi, i permessi di soggiorno, tutto quello che può interessare una donna straniera che non è integrata, come funzionano i servizi sanitari. Facevamo gli accompagnamenti per cui—pensavamo, una donna che tu accompagni, poi ne accompagnerà altre. Era l’effetto snowball, ha funzionato per tanti anni così. Quindi fra le nostre operatrici c’erano sempre le mediatrici culturali, a seconda delle lingue dei gruppi che andavamo a contattare. E soprattutto tra le nigeriane molte provenivano da questo mestiere. C’erano ragazze che o avevano finito di pagare il debito o si erano liberate in qualche maniera e quindi avevano lasciato e abbandonato i papponi, si erano messe a fare altre cose, magari commercio. Loro fanno molto i venditori, sai, questi mestieri informali. E venivano molto volentieri lavorare con noi, abbiamo fatto anche dei corsi. Oltre ai nostri TAMPEP ha sviluppato un sacco di metodologie sulla formazione, sia delle educatrici fra pari, quindi ragazze che magari restavano nella prostituzione, ma facevamo con loro un breve corso per cui dopo nelle loro attività continuavano a fare sex work, ma potevano educare altre, insegnare strategie alle altre, oppure addirittura farle diventare mediatrici culturali. Abbiamo fatto dei corsi di 600 ore, per esempio, quelli finanziati dall’Europa, anche. Quindi un grande lavoro di formazione, in un certo senso sì, è stato fatto.

Rachel Love: [00:19:56] Mi stavi raccontando anche dei volantini, tipo il processo di raccogliere i materiali in giro negli altri paesi.

Pia Covre: [00:20:07] Sì, perché quando abbiamo cominciato a frequentare altri gruppi—per esempio, siamo andati alle grandi conferenze internazionali sull’Aids— appena cominciato, che nei primi anni ‘90, l’Europa ha cominciato a finanziare delle campagne sull’HIV e di prevenzione. Soprattutto ha privilegiato molto le associazioni, la società di base, la società civile, su questo. E noi abbiamo cominciato a presentare e partecipare con i primi progetti come questo TAMPEP, che è stato finanziato per quasi venti anni, credo. E quindi abbiamo cominciato a fare un lavoro più organizzato. Siamo andati alle prime conferenze internazionali e abbiamo visto che c’erano altri gruppi di sex workers di altri paesi che o erano un po’ più avanti di noi o avevano avuto finanziamenti  prima, avevano fatto un loro lavoro di comunità, penso anche a quelle dell’Africa, ad esempio, che abbiamo incontrato. Quindi io portavo a casa tutto perché andavamo e si vedevano tutti questi differenti modi, di azioni, di campagne e così via. Quindi portavo a casa. Poi i primi volantini, quelli veri, fatti non più in casa, li abbiamo pensati portando questo materiale, facendo dei workshop con le lavoratrici del sesso, o comunque con le giovani di varie nazionalità. E con loro si discuteva su cosa era meglio fare. Se era meglio fare un volantino con un fumetto, se era meglio scrivere una cosa più chiara, più lunga, se era meglio fare un video, fino a fare la audiocassetta. Perché allora non avevamo i cellulari di adesso e quindi si facevano delle audiocassette, che poi abbiamo replicato in un sacco di copie, centinaia di copie, perché le ragazze andavano col Walkie Talkie, allora avevamo i walkie talkie per ascoltare la musica, e quindi noi andavamo con le cassette. Diciamo “Ascolta, c’è anche la tua lingua.” Se magari trovavamo una ragazza che non parlava [italiano], era polacca, noi magari non avevamo qualcosa di specifico o non avevamo la mediatrice polacca, e per assicurarci che capisse meglio gli davamo la cassetta o gliela facevamo ascoltare, dicendo, “Senti che lo puoi ascoltare, ti spiega tutto.” Era stato tutto tradotto in moltissime lingue.

In questo TAMPEP è stato un progetto che ci ha dato un grande vantaggio. Perché il primo anno l’abbiamo fatto tra noi e la Germania e capofila l’Olanda, successivamente il progetto TAMPEP fu esteso a 23 paesi europei. Per esempio già in Germania c’erano dei gruppi etnici che qui da noi sono arrivati dopo, mentre da noi c’erano i nigeriani che ancora non c’erano in Germania. Ma in Germania poi e più a nord, in Danimarca o in altri Paesi, in Olanda, c’erano gruppi di nazionalità che in Italia non c’erano. Quando sono arrivate le prime russe e ucraine in Italia noi non avevamo ovviamente il russo—avevamo la mediatrice che parlava russo, è stata già una fortuna perché era la nostra albanese che parlava russo—ma ci siamo subito fatte mandare i materiali. Li avevamo già pronti perché li aveva già prodotti TAMPEP in Germania o in Olanda, o quelli della Polonia, ad esempio, che avevano già fatto le varie lingue perché loro avevano quel target. Quindi è stato molto veloce questo. Tanto che in questo senso è stato proprio un lavoro di sul terreno velocissimo che poteva farci fronteggiare una emergenza in qualsiasi momento nel giro di una settimana.

Ma lo stiamo facendo ancora adesso con questa diaspora, questa fuga che c’è dall’Ucraina verso qua, ad esempio, materiali prodotti in Ucraina dal Legalife che è un’associazione con cui abbiamo fatto anche un progetto sull’HIV. Quell’anno TAMPEP lo fece, io sono andata solo per una formazione, per tre giorni, in Ucraina. Quell’anno abbiamo presentato tutti e due, noi e anche loro, un progetto per l’Europa. Noi lo avevamo presentato per la Georgia e non mi ricordo quale altro Paese. Loro lo hanno presentato per la Russia e l’Ucraina. Il loro è passato, il nostro l’hanno bocciato. Quindi loro sono andati, hanno realizzato un progetto tutto sull’HIV, la prevenzione, eccetera, fatto mi pare a San Pietroburgo, e questa città a Kiev, ma anche più in qua, quella dove adesso passano tutti i profughi, Leopoli. Io sono andata a Leopoli a fare la formazione. Lì c’è un’associazione che si chiama Legalife, che ha un sito, una pagina Facebook. E la prima settimana stessa hanno scritto che avevano problemi, noi abbiamo pensato di mandare dei soldi e abbiamo fatto una colletta fra noi, abbiamo mandato un piccolo budget per aiutare, perché avevano bisogno di tutto. Poi loro hanno cominciato a fare degli alert sui viaggi, ad esempio sul pericolo della violenza e anche del traffico THB.

Perché molte donne possono essere agganciate da persone che ti dicono, “Vieni da me, ti porto io,” poi le portano nei bordelli da qualche parte clandestini. E quindi loro facevano gli alert e noi abbiamo diffuso questi alert. Io, per esempio, li ho passati a tutte le mie amiche, tutte quelle che conosco qua di lingua ucraina, dicendo rimandale al tuo giro in Ucraina, alle tue amiche, alle famiglie che conosci. Perché passare un messaggio importante e passarlo così veloce è difficile. Poi, per esempio, LEFÖ—l’associazione austriaca di TAMPEP, che è una magnifica associazione, fa parte di TAMPEP da anni, nata per le donne latino americane, ovviamente poi anche in Austria ci sono donne di tutti i gruppi, quindi lavorano moltissimo e lavorano anche loro anche sull’anti-tratta. Quindi sono come noi. Lavorano sia sul lavoro sessuale che sull’anti-tratta. E hanno fatto un volantino proprio la seconda settimana della guerra che noi abbiamo preso perché era perfetto proprio per mettere l’alert. Quindi lo abbiamo messo a disposizione già alla nostra frontiera. Adesso stiamo facendo un accordo con UNHCR perché noi abbiamo tre frontiere qua in Friuli, è passata molta gente, soprattutto il primo mese. Adesso sta un po’ calando. E hanno costruito UNHCR, hanno deciso di fare uno spazio donna alla frontiera, in modo che le donne possano andare alla toilette e avere un posto riservato per loro e i bambini, ma anche venire quelle con i bambini, possiamo guardarle, vedere se ci sono segnali di alert, e informarle su tutti i numeri verdi, quelli antiviolenza, quello contro la tratta.

Adesso stiamo facendo un accordo per mandare tre delle nostre operatrici, abbiamo anche ingaggiato delle altre mediatrici che parlano anche russo e ucraino, e le mandiamo alla frontiera, 7, 8 ore al giorno per approcciare le persone che arrivano. Quindi una rete così secondo me è fondamentale, bisogna sostenerla. Il problema è che TAMPEP a un certo punto non è più stato finanziato dall’Europa. Quindi abbiamo dovuto trovare delle risorse altre. Adesso noi abbiamo fatto un app, sempre con TAMPEP, bellissima, la cosa più moderna. L’abbiamo preparata da poco. Che è una app che serve proprio per le persone migranti che viaggiano, si chiama Global Passport Project. […] Se dentro la app cerco per esempio TAMPEP, ci sono una serie di servizi, può mostrarteli tutti, oppure i servizi per l’educazione e l’assistenza legale, che è importante per i migranti, corsi di lingua, giovani, assistenza sulla salute, Women and children’s shelter. E poi il Red Umbrella, che è quello che ti indica i servizi della rete di TAMPEP. […]

È stato faticoso. Una cosa assurda, perché questa bellissima idea di fare una app è venuta ai giovani, cioè agli attivisti più giovani che erano dentro un direttivo in questo gruppo di TAMPEP. I fondi sono fondi della fondazione olandese Mama Cash, che è l’unica fondazione che ha un fondo di finanziamento solo per sex workers. L’hanno fatto, credo sarà quasi una decina d’anni. Mama Cash si è sempre occupata di sostegno alle donne nel mondo, quindi ha sempre sostenuto progetti di donne al femminile per lo sviluppo, l’empowerment, tutte queste cose. Sono sempre state pro-sex workers nel senso di sostegno. E a un certo punto hanno deciso di raccogliere, visto che hanno molti donors, ovviamente, di raccogliere dei fondi espressamente per le sex worker. E naturalmente alcuni danno, altri dicono no, noi solo sull’Aids, allora devono stare attenti quando fanno il bando. Io ho partecipato fra i valutatori, si chiama Red Umbrella Fund. E allora lì, ad esempio, se tu presenti dei progetti ogni anno fanno un bando. Sono progetti che possono valere dai 40.000€ ai 70.000€ se sei una rete in tutto il mondo, ma non devi avere caratteristiche particolari, deve essere un’associazione guidata da sex worker, non altro. E quando tu presenti il progetto si fa la valutazione. Anche io ho fatto parte dei valutatori. Ovvio che per loro è anche importante che ci siano progetti che hanno visibilità e questo fondo mi ricordo ad esempio che c’era un progettino che veniva dagli Stati Uniti sul carcere per sex worker in carcere, perché lì ti arrestano. E mi aveva molto colpito. Io pensavo che andasse finanziato, insomma. L’ho sostenuta, ma non sono riuscita a farla passare, non l’hanno finanziato. Per dire, però altre cose, appunto hanno finanziato TAMPEP per sostenere il Network e per fare questo app. Quindi, dentro questo gruppo di più giovani del TAMPEP hanno detto, “Dovremmo fare una app”, quella era la proposta. […] Quindi siamo passati dal volantino fatto in casa al digitale—

Rachel Love: [00:41:02] È bello che c’è tutto questo percorso, storia di attivismo e conoscenza, così. Fa piacere che la storia sia durata così tanto, dal volantino all’app.

Pia Covre: [00:41:21] Sì, dal volantino all’app. Bella questa cosa, mi piace. […]

Rachel Love: [00:43:58] Ma tornando un po’ negli anni, era una cosa naturale, dato per scontato, che il Comitato dovesse occuparsi dell’Aids?

Pia Covre: [00:44:20] Non era una cosa scontata. Diciamo che noi abbiamo pensato che si doveva fare qualche cosa. Appena abbiamo cominciato a sentire i primi casi della storia dell’Aids, abbiamo detto, “Questa cosa non si limita al problema dei tossicodipendenti e dei gay. È evidente che si trasmette con i rapporti sessuali. Si fa presto la catena.” Noi già eravamo consapevoli delle malattie a trasmissione sessuale, per cui abbiamo detto, dobbiamo assolutamente mobilitarci, anche perché abbiamo pensato che ci sarebbe subito stata la caccia all’untore, come si dice, no? Questi adesso se la pigliano con i gay per prima, ma subito, nel giro di poco tempo cominceranno a dire che i gay, i tossici e poi anche le puttane, sono tutti quanti nella categoria che siamo quelli che vanno a portare in giro l’infezione. Per cui è meglio che ci prepariamo prima, che anticipiamo, facendo un’attività di sensibilizzazione e di promozione del condom. Perché l’unica cosa certa era che il condom almeno ti riparava. E poi, ovviamente, tutti gli altri dettagli attorno. Per cui siamo stati noi a rivolgerci ai medici qui, non sono stati i medici a venire da noi. Siamo stati noi ad andare da loro a dire, “Noi abbiamo bisogno di informare,” e sono venuti alcuni medici a fare dei workshop con noi. Proprio i primissimi, il primo anno, nell’86, nell’87, eccetera, abbiamo costruito dei piccoli workshop invitando i medici a venire a spiegare tecnicamente di cosa si trattava, almeno con le informazioni che c’erano allora. Poi abbiamo fondato la LILA.

Rachel Love: [00:45:58] Come è andata la fondazione della LILA?

Pia Covre: [00:46:02] Abbiamo una bella foto, non so dove ma c’è. Ma la LILA è stata un grande, una grande associazione. Perché in Italia a quell’epoca c’era il nulla. Poi, subito dopo sono nati altri gruppi come ASA, Anlaids. Pochi i gruppi di attivisti e volontari, ma importanti. Anlaids aveva molti medici dentro l’associazione. Ma sul campo proprio che lavorava con i tossicodipendenti e con i gay erano le associazioni di base. Quindi LILA è stata una di queste associazioni. Alla LILA si deve anche l’apertura delle prime case alloggio e comunità alloggio per le persone con HIV che non avevano un posto dove vivere in quanto esclusi anche dalla propria famiglia. Poi ha avuto la fortuna di avere delle persone dentro molto appassionate e brave, il presidente della LILA per tanti anni è stato Vittorio Agnoletto, un medico del lavoro, che è stato bravissimo secondo me. Ha scritto anche svariati libri, ovviamente, è un caro amico, era con noi a Yokohama, mi ricordo che ci siamo divertiti un mondo. Però a parte questo, insomma, Vittorio è stato uno bravo che è stato dirompente anche nella società scientifica, perché portava delle questioni—ma poi anche altri medici […] Uno di Roma dell’ospedale San Gallicano, che lui collaborava con l’Africa, bravissimo anche questo, molto umano, proprio molto sulla cooperazione.

Insomma, ci sono stati alcuni del sistema scientifico che sono stati molto bravi, hanno seguito per anni con attenzione i bisogni delle persone. Insomma hanno coinvolto le associazioni di base perché come hai visto prima, quella foto di Roma dove sono andata a fare la facilitatrice, dove facevano la formazione ai loro tecnici, cioè agli infermieri, al personale medico, e invitavano qualcuno della base, quindi sex worker, tossicodipendenti, per raccontare, perché bisognava capire dove dovevamo intervenire, dove si poteva, dove c’era la vulnerabilità e il nodo problematico, quindi risolverlo, facendo delle azioni. Per esempio, adesso hanno cambiato di nuovo, ma siamo riusciti a far aprire i servizi sanitari in orari inusuali. Perché mi ricordo quando si faceva questo progetto sul Veneto negli anni ‘90, i servizi sanitari hanno orari poco compatibili con gli stili di vita di alcune categorie di persone. Tu sai che vai a fare le analisi dalle sette alle nove, poi chiudono, non puoi più fare un prelievo. Ma chi delle sex workers si alza dalle sette alle nove? Chi dei tossicodipendenti?

Allora abbiamo preso accordi, siamo andati a fare l’unità di strada il pomeriggio, perché le donne lavoravano pomeriggio e la sera. E c’è una zona vicina a Verona, dove lavoravano tutto il pomeriggio. Quindi si andava con il nostro camper a fare l’unità di strada di pomeriggio, in accordo con l’azienda sanitaria che ci consentiva di fare i prelievi il pomeriggio, portavamo le donne a fare i prelievi per il test dell’HIV e anche per altre malattie sessualmente trasmesse. E poi anche le visite al servizio ginecologico—ci hanno aperto praticamente il servizio in un orario che non era quello consueto. […]

Rachel Love: [00:50:13] Questo lavoro di prevenzione e anche di riduzione del danno dà opportunità di parlare con queste comunità un po’ più emarginate? Sembra un’opportunità per creare delle solidarietà particolari.

Pia Covre: [00:51:05] Io credo che l’Aids sia stato una cosa terribile, ovviamente, lo è ancora in parte. Però è stata anche una grande occasione, perché credo che tutti i movimenti, cioè i collettivi più o meno organizzati di sex worker, di figure marginali, poi anche tossicodipendenti, hanno potuto organizzarsi. Si sono tutti mobilitati e questa cosa in qualche maniera ha anche portato delle risorse economiche che prima non c’erano. È stato forse la prima volta che c’è stato un’ondata di finanziamenti destinati alla prevenzione che sono andati a queste associazioni e a questi gruppi di base. Altrimenti prima erano solo mutuo, auto aiuto, e basta, fermato lì. Invece, infatti, anche noi per i primi anni abbiamo lavorato gratuitamente, noi mettevamo i nostri soldi, si faceva dei volantini, si faceva dei viaggi, si andava a contattare le comunità delle nostre colleghe e poi a loro volta lo facevano loro sul loro territorio. Quindi abbiamo aperto servizi perché ovviamente il nostro fondamentale era, “Non basta dire fai la prevenzione, devi anche darmi un servizio di riferimento.” Quindi a lato dove ci presentavamo, chiamavamo l’azienda sanitaria del luogo, oppure un politico che si conosceva, gli dicevamo, “Noi dobbiamo fare qualcosa qui, perché deve esserci un servizio disponibile.” E così abbiamo costruito una serie di aperture dentro i servizi pubblici. Che stiamo facendo ancora, ovviamente. Perché poi dopo cambia la gente, si dimentica, e chiudono.

Siamo andati l’altro ieri a parlare con la nostra peer [educator] transgender, c’era un’assemblea pubblica sulla sanità, fatta dalla sinistra, dal PD, in protesta contro le leggi che stanno facendo in regione e l’amministrazione a Trieste degli ospedali pubblici, della sanità e così via. Ma come al solito mi scrivono e ci invitano, “Venite, partecipate.” E abbiamo mandato la trans, la quale ha portato la questione, cioè non si è dilungato molto sui loro dieci punti. Ha detto, “Qua abbiamo un problema. Tutti gli interventi di cambio di identità e di sesso, ovviamente, che mi fanno all’ospedale, sono tutti bloccati. Qui non possiamo fare, a meno che uno se può pagare, va a farselo in un altro posto a pagamento. Ma qua abbiamo bisogno di questa cosa che si rimetta in moto.”

Rachel Love: [00:53:37] È bloccato perché?

Pia Covre: [00:53:40] Un po’ forse a causa del COVID, come sai ha rivoluzionato un po’ l’assetto degli ospedali, però non è giustificato. Adesso però diciamo che dopo la prima ondata di COVID gli ospedali avrebbero dovuto riorganizzarsi assumendo più personale, aumentando i posti letto per le infezioni, ovviamente. Invece non hanno fatto niente di tutto questo. Tanto il personale non lo trova e metà del personale è stato a casa perché non voleva andarsi a infettare. Quindi hanno assorbito il personale di tutti i reparti per metterli a lavorare sul COVID. E a distanza di due anni questa situazione non è molto migliorata. In più i posti in più che dovevano fare per il COVID non li hanno fatti, per cui nella seconda ondata di infezioni hanno dovuto di nuovo chiudere. Quindi persone che hanno altre malattie come il cancro, ad esempio, altre cose, hanno avuto grandi difficoltà in questi due anni ad accedere alle terapie e servizi e perché c’è stata una chiusura, un po’ una limitazione proprio nell’accesso, e una tendenza a fare delle liste d’attesa lunghissime su tutto, ovviamente. Su tutto la gente magari salta su e protesta, sulla trans non ci fa caso nessuno. Quindi se non protestiamo noi chi lo fa? […]

Rachel Love: [00:58:57] Sì, è sempre un problema del sapere e poi dell’accesso. Ma è un lavoro molto complesso comunicare con tutte queste diverse comunità.

Pia Covre: [00:59:16] Beh, una volta era più difficile, adesso è più facile, perché con internet e con queste tecnologie, tu puoi comunicare perché hai i traduttori automatici, perché arrivi in tutto il mondo in un momento, è molto, molto più facile. È una meraviglia. Io credo che questa nuova epoca supertecnologica ci dà milione di possibilità in più. Peccato che siano usate a volte molto, molto male, in maniera negativa, da criminali, da gente stupida che sta lì a espandere odio sui social, per dire, però il potenziale di questa cosa è straordinario.

Rachel Love: [00:59:55] E invece ai tempi tipo si prendevano materiali in albanese o polacco e si portava qua.

Pia Covre: [01:00:07] E poi lo prepari, si rielaborava, si preparava o addirittura si copiava. Si cambiava solo gli indirizzi. Dipendeva da cosa era. Perché poi, per esempio, noi abbiamo fatto negli anni, che non c’entra con l’AIDS, ma per esempio abbiamo fatto l’agenda legale, una serie di informazioni proprio che davamo in varie lingue per tutta la questione legale che riguardava la sanità, i permessi di soggiorno, come funziona la legge e quali diritti hai, dove sei fuorilegge e dove sei ok, sulla prostituzione. Tutte queste cose le abbiamo fatte, ovviamente, che abbiamo perfezionato con tanti pezzi di progetto, con una fatica enorme, perché non è che hai una cassa dove vai a prendere. Devi ogni volta presentare un pezzo di progetto qua un pezzo la e non sempre ti finanziano.

Rachel Love: [01:00:55] A pezzettini.

Pia Covre: [01:00:56] A pezzettini.

Rachel Love: [01:00:58] E invece alle conferenze come funzionava?

Pia Covre: [01:01:02] Sull’Aids siamo stati invitati a molte conferenze. Allora il grande lavoro di gruppi come il Network Sex Worker Project, NSWP, quello fatto con UNAIDS,  è stato quello di ricavare sempre degli spazi per il target vulnerabili. Quindi, per esempio, ogni grande conferenza costa un patrimonio, però se tu fai la domanda, presenti un abstract del tuo lavoro, ti viene data l’entrata gratuita e quindi si poteva concorrere per partecipare e poi comunque garantivano sempre—cioè una cosa al lato della grande conferenza sull’AIDS, fanno sempre quella della società civile, e quindi lì, ad esempio, l’accesso costa molto meno e le associazioni di base come noi che lavorano sul’AIDS potevano avere un pacchetto di entrate gratuite. Quindi gli attivisti, comunque, si sono sempre mossi, si muovono così. Poi ci sono alcune borse che danno il viaggio, ad esempio pagavano il viaggio. Per esempio, Mama Cash è una di quelle fondazioni che pagava i viaggi per andare a certe conferenze importanti. Se tu scrivi, “Sono un attivista, una donna, così, e mi occupo di questo, e voglio andare a quella conferenza, sono invitata a quella conferenza, ma non abbiamo le risorse.”

Ti pagavano il viaggio, loro ci sono sempre. Però è un po’ laborioso cercarle. Alcuni paesi hanno più sostegno. Io, ad esempio, sono andata a una conferenza, forse quella di Vancouver, in Canada, sull’AIDS. E un contributo di un milione, non mi ricordo più, insomma, me l’ha dato la ministra delle Pari Opportunità, che allora era Livia Turco, che poi con la quale avevamo una certa confidenza perché poi lei ha fatto anche la legge contro la tratta, quindi collaboravamo in questo senso. E ho detto, “Guarda, devo andare a questa conferenza importante, ma non abbiamo risorse, non possiamo avere il viaggio gratuito.” L’entrata era gratuita, ma il viaggio no. Quindi ha dato lei un contributo per farci fare il viaggio. Dove avevamo fatto questo poster bellissimo, che mi dispiace tanto ma l’ho buttato via poco tempo fa, perché era fatto con le bamboline, tutto fatto ritagliato con la carta come quello che fanno i bambini. Ed era l’esposizione del nostro lavoro e della ricerca che avevamo fatto sull’uso del condom, sulle infezioni, queste cose qua. Era molto bello. Non so se esiste una foto.

Rachel Love: [01:03:38] Che anno sarebbe stato?

Pia Covre: [01:03:49] Fosse anni ’90 credo.

Rachel Love: [01:03:51] E ci sono state sfide nel contesto italiano che invece in altri paesi non c’erano? Ci sono difficoltà qua con la lotta contro l’Aids oppure per i diritti delle sex workers?

Pia Covre: [01:04:13] Non saprei risponderti su questo, sugli altri paesi, in Italia abbiamo avuto molti scontri ideologici. Se parli con Franco Grillini te lo può raccontare perché lui ha fatto il parlamentare tanti anni, ma viene dall’Arcigay, è stato un fondatore di Arcigay, e conosce molto bene, fra l’altro, questo confronto tra la Chiesa cattolica, e lui si era proprio ben studiato tutto, è molto simpatico da sentire, e ti racconterà com’era il perbenismo, la pruderie, il moralismo, tutte queste cose che sono state tirate fuori. Cioè si arrivava al punto di dire che te lo sei meritato e te lo sei cercato. Guarda, io devo dire la verità, quando è arrivato il COVID, avendo praticato molto la questione sanitaria, tutti ‘sti aspetti delle infezioni, ho detto, “Ecco qua. Adesso finalmente voglio vedere come se la caveranno. Perché prima gli untori eravamo solo certe categorie. Adesso siete tutti potenzialmente. Eh mo’? Vi verremo a fare i segni fuori della casa? A scrivere col gesso bianco che siete infetti?” Questa cosa devo dire che mi ha dato qualche soddisfazione, nel senso che ho detto, “Finalmente questi si sentiranno nei panni di che cosa significa avere la disgrazia di contrarre una malattia che può succedere a chiunque e non necessariamente perché sei immorale o perché sei gay.” Questa cosa, per esempio, dei gay e del sesso contro natura, dove la Chiesa abbonda di malignità, figurati all’epoca dell’HIV.

È stata una cosa, un ostracismo terribile contro gli omosessuali. Non li volevano più in casa, gente che buttava fuori le persone da casa. Qualche ospedale, qualche posto li respingevano, dei dentisti non se ne parla. Insomma, è stato una lotta che probabilmente quelli di Arcigay ti racconteranno se lo ricordano. C’è stato un ostracismo fortissimo. Non so negli altri paesi, però ti porto solo un esempio. In Svezia, che tutti dicono un paese socialista per eccellenza, in realtà un disastro la Svezia. Bah. La prima sex worker che hanno trovato ammalata di AIDS, l’hanno praticamente non incarcerata in un carcere, l’hanno messa in isolamento in un posto remoto che non fosse più a contatto con nessuno. Ma non è una malattia da cui guarisci. Cosa fai? Metti una persona in un campo? Questo hanno fatto. Per dirti come alcuni paesi nel fronteggiare questa cosa abbiano perso il buon senso. Qui in Italia abbiamo avuto grandi problemi, difatti poi si sono aperte alcune comunità, come quelle sia di tossicodipendenti che gay, hanno fatto in modo insieme ad organizzazioni spesso cattoliche, anche, devo dire. Hanno aperto delle comunità di accoglienza per persone che avevano l’HIV perché nessuno li voleva in casa. Penso ad esempio un grandissimo progetto è stato fatto a Genova e poi coinvolgendo tutto il territorio, da un prete fantastico che si chiamava Don Andrea Gallo, che è morto qualche anno fa, purtroppo.

Lui era un ex-partigiano, fra l’altro—era un comunista, sicuramente, oltre tutto. Ed era un prete che al quale avevano tolto la parrocchia perché era talmente sovversivo nel suo essere cristiano. E lui aveva la parrocchia a Genova e gliel’hanno tolta, allora è andato, si è fatto ospitare da un prete anziano di una parrocchia, San Benedetto al Campo, che è proprio sul porto di Genova, dove vanno tutti i derelitti senzatetto, lui aveva messo su la mensa per mangiare, e questo vecchio prete di là gli ha detto, “Vieni, vieni qua da me,” e lui ha occupato San Benedetto al Porto. La sua comunità, si chiama di San Benedetto al Porto, è rimasta molto famosa. Infatti, tra le prime cose, i primi gruppi, non so se fosse stato anche lui fra i fondatori di LILA. O era lui o era il Gruppo Abele, adesso non mi ricordo, uno dei due, uno comunque dei preti più importanti d’Italia, era dentro fra i fondatori. E si sono subito attivati su questo, facendo comunità dove poter accogliere queste persone. Quindi la casa come questa in campagna dove poi hanno messo su, allevavano le galline, le pecore e facevano l’agricoltura. Poi hanno aperto un ristorante, un ristorantino al porto, al faro. Insomma una cosa per far reintegrare e lavorare ex-tossicodipendenti e ex-carcerati—e poi ha anche aperto la mensa per tutti i poveri.

Ma in particolare, trattandosi di Genova, c’erano tantissime prostitute e tantissimi tossicodipendenti e ragazzi così, accattoni. Lui era un prete magnifico, in effetti. È venuto una volta in TV, mi ricordo, in una trasmissione della Rai, di quelli importanti di prima serata e c’ero pure io. E ha fatto una filippica per sostenere l’aborto. Perché la contraccezione e anche l’interruzione spontanea, deve essere garantita, non facciamo mica morire la gente perché se una si trova in difficoltà—cioè era un prete di una veduta assolutamente aperta ma molto importante è stato, come è stato importante, ma un po’ meno spudorato, diciamo, quello del Gruppo Abele [Don Luigi Ciotti], che è molto popolare adesso, perché da anni fa la lotta, quello di Libera, la lotta alle mafie, queste cose. Ma prima il suo lavoro sul campo era soprattutto a Torino. Il Gruppo Abele faceva anche delle pubblicazioni in cui ce ne sono un paio, probabilmente le trovi in giro, ma le avevamo anche giù prima, non te le ho fatte vedere, dove hanno pubblicato molto sia sul fatto di numeri speciali, sia sull’HIV/Aids, che sulla prostituzione. Fanno anche un giornale rivolto agli operatori sociali, non un giornale, un libretto, una pubblicazione che fanno periodicamente. Quindi è stato fatto anche molto lavoro, anche un po’ scientifico, su queste cose.

Questi sono stati due preti straordinari. Poi ne abbiamo un altro che per fortuna è morto, poteva morire anche prima che non lo avremmo pianto. […] C’erano le donne ucraine—mi ricordo un’amica che era a Rimini, che lavorava nel ’95. Lei ha detto, “Io voglio restare,” le scadeva un permesso per turismo per 2 o 3 mesi. Ha detto, “Io non voglio tornare là, voglio restare qua.” E noi finivamo, abbiamo fatto tre mesi di unità di strada a Rimini durante la stagione della vacanza, due unità di strada al giorno, due auto, due mezzi. E lei diceva, “Quando passa […] io mi vergogno perché quello si ferma, mi tira fuori i santini e la Madonna e mi dice prega con me. E io perché prego? Io non so.” Bella come il sole, voleva fare qualsiasi cosa pur di non ritornare in Ucraina. Quindi voleva restare in Italia—poi l’abbiamo portata a Venezia con noi, l’abbiamo portata al progetto del Comune di Venezia. Mi hanno telefonato, e ho detto, “Senti, abbiamo qui recuperato una ragazza che aveva il pappone, l’ha sfruttata, l’ha derubata. Insomma, cosa ne facciamo? Lei vuole liberarsi e restare.” “Portala qua.” E così abbiamo fatto con lei un programma e poi siamo sempre rimasti in contatto. […] Però questi preti, cioè quello lì che andava a fare l’unità di strada. Noi andavamo a dare i preservativi e lui andava a dare i santini, cioè faceva pregare le donne. […] E questa qua diceva, “Io mi sento, guarda, mi sento morire imbarazzata quando questo viene e mi vergogno per lui,” si vergognava per lui, per questo atteggiamento di pietistico, moralistico, super cattolico. Falso, insomma. Che belle storie.

Rachel Love: [01:13:35] Immagino che ce ne siano tantissime, tutte molto coinvolgenti.

Pia Covre: [01:13:48] Abbiamo incontrato delle persone e delle donne molto, molto belle in questi tanti anni. Alcune fragili, vulnerabili, anche insignificanti, alcune, ma altre con una forza e una bellezza proprio. Persone che ce la volevano fare e ce l’hanno fatta. Beh, insomma, hanno cambiato un po’ la loro vita. Certo, non tutte, alcune sono state anche sfortunate, però comunque hanno ottenuto qualcosa che loro volevano. Lasciare un paese che non era democratico, dove la vita a quel tempo erano comunque miseria. Si sono veramente buttate all’avventura, però sono riuscite con i loro mezzi e con le possibilità che avevano a farsi comunque una vita anche abbastanza buona o agiata. […]

Pensa che, per dire una delle cose italiane tipica non siamo stati a Rimini, abbiamo lavorato questi tre mesi con due team per unità di strada, quindi eravamo otto, nove persone e venivano due volte a settimana. Venivano anche delle trans, una da Bologna e una da Roma, una brasiliana da Roma e un’italiana da Bologna. Che facevano? Perché c’era un gruppo di trans, di circa una quarantina, che lavoravano in un’area di un centro commerciale di Rimini. Questo era il ’95, ’94. Era già due anni che c’era una grande polemica a Rimini contro la prostituzione e le autorità cercavano di tutto per spingerle fuori, per mandarle via.

Erano lungo la spiaggia durante le serate ed erano di notte in questo centro quest’area commerciale. E c’erano tutte trans nell’area commerciale, mentre le donne lavoravano tutte nel centro di Rimini. Quindi è arrivato finalmente un assessore allo sport e al tempo libero. Ed era un ex atleta di basket, credo, molto, molto carino, il quale ha detto, “Facciamo un progetto con voi,” perché aveva visto che noi lavoravamo già con il Comune di Venezia, un progetto di strada. E ha detto, “Proviamo a fare un progetto per vedere—” Volevano spostarle dal centro, cioè convincerle a trasferirsi da un’altra parte. Discutiamone. E anche lì, per esempio, noi abbiamo fatto questo lavoro e le donne hanno cominciato a trasferirsi. Sono state delle pattuglie dei carabinieri, stronzi stupidi, che non hanno seguito la linea che si stava facendo col Comune e sono andati lì a cacciarle via perché erano troppo in prossimità della loro caserma o di chissà che. Quindi noi le facciamo spostare. Poi sarà la polizia a mandarle via. Quelle non si spostano più, dicono, “Io torno a lavorare sul lungomare.” Quindi è stato un po’, le difficoltà a volte sono queste, le incomprensioni fra vari settori di istituzione. Quindi abbiamo lavorato lì, abbiamo lavorato con le trans e facevamo due volte a settimana, andavamo solo a contattare le trans, quindi tutti i materiali, le cose. E perché te lo stavo dicendo? Perché, a parte lo sport e il tempo libero, che era molto divertente, che fosse stato fatto già da questo qui, ma forse no, perché stavo parlando dei materiali.

Rachel Love: [01:27:49] Di volantini.

Pia Covre: [01:27:51] Volantini ad hoc che abbiamo fatto. Poi abbiamo recuperato l’Ucraina che abbiamo portato a Venezia, ma alla fine del progetto avevamo questi due team. C’era qualcosa che volevo dirti che non te l’ho detto, adesso mi è sfuggito. Divago troppo. Ah, dei preservativi! Allora vengono le trans, è una di queste che sta ancora a Bologna, V., mette su una amicizia,—loro hanno un sacco di relazioni, di contatti, fuori da questo. Quindi, finita l’unità di strada, ha finito il lavoro, lei aveva un amico che faceva parte dei vigili urbani, la polizia cittadina. È uscita con questo, tutto di nascosto, ovviamente. E a fine della stagione, quando noi siamo partiti e tornati indietro—noi davamo moltissimi preservativi alle ragazze, andavamo giù con scatole, scatoloni, ad ognuna di loro ogni sera che se passava davamo tre, quattro, sei preservativi. Così ne abbiamo distribuiti tanti alla sera. Alla fine di tutto questo siamo tornati a casa e un giorno lei è andata a trovarlo a Rimini. Lui si è presentato, arrivato là con due sacchi neri, quelli dell’immondizia grandi, pieni di preservativi. E ha detto, “Questi ve li restituisco.” “Cosa sono?” “Preservativi. Li ho trovati dentro l’armadio nell’ufficio dei vigili urbani.” C’era un armadio dove questi sequestravano, praticamente svuotavano le borsette alle ragazze. Dicevano, “Fammi vedere cosa hai là, perché allora te li porto via, così non fai più marchette.” Fare marchette vuol dire fare sesso a pagamento. E quindi glieli rubavano. Ed erano l i nostri, le marche quelle che distribuivano noi. Tutti dentro questi sacchi neri, quest’amica ci ha chiamato da Bologna, ci ha detto, “Senti, ho qui due sacchi dei vostri preservativi.” “Dove li hai trovati?”  “All’ufficio dei vigili urbani.” Se li portavano via, li derubavano, li buttavano in questo sacco e li hanno tenuti là in ufficio. Pensa, come puoi non tener conto che il tuo Comune—perché i vigili urbani sono pagati, è polizia municipale pagata dal Comune—che gli assessori stanno facendo questo tipo di lavoro e tu vai in giro a sequestrare i preservativi che loro pagano per distribuirli.

Rachel Love: [01:30:20] Pazzesco.

Pia Covre: [01:30:22] Per dirti come vanno le cose. Non so, beh, anche negli altri paesi, sono paesi pure peggio. In America avere un preservativo in borsetta vuol dire che sei una puttana, cioè questa è una follia pura. Negli anni dell’AIDS questa cosa ha pesato assai, le compagne americane hanno fatto grandi battaglie. Però noi non siamo ancora venuti a capo di niente. Siamo ancora così. Cioè, ecco, questa è una cosa quasi grave come una guerra, perché effettivamente il rispetto per la salute delle persone, soprattutto in epidemie di questo tipo, è fondamentale. Quindi quando tu sottrae i preservativi non è che lei non farà sesso. Lei lo farà senza, probabilmente, perché se ha bisogno di soldi lo farà lo stesso, lo farà senza. Certo, se la arresti, la metti in carcere, la metti dentro per un po’ di ore, poi deve pagare anche una multa, come succedeva anche in Francia. Questa è una cosa gravissima. È un attentato alla salute pubblica portar via i preservativi a una persona che ce li ha in borsetta. Ed è grave quanto una guerra, a mio avviso, perché tu puoi uccidere le persone così. In quegli anni, quando non c’erano terapie, cure, era una cosa gravissima. E io mi domando come possono sentirsi, possibile che questi non si guardano allo specchio? Non si dicono cosa stiamo facendo, non se lo chiedono come quelli che fanno la guerra? Cioè non è molto diverso, eh? Sono diversi i mezzi, ma la morte della gente rimane uguale.

Rachel Love: [01:31:48] Magari con il problema della stigma non ci pensano.

Pia Covre: [01:31:57] Mah. Tu non puoi essere un responsabile, un amministratore responsabile anche della salute pubblica, della sicurezza. E la riduzione del danno è una cosa che si fa proprio per non far morire la gente. Sulla questione del condom e del sesso tu non puoi sottrarre il condom a una persona che ce li ha in borsa.  Qualunque cosa faccia sia che lo usi per portarsi a casa l’acqua—in Africa lo usano anche per questo, perché non avevano contenitori, in Africa quando sono arrivati i family planning a fare la distribuzione, di insegnare sulla prevenzione, eccetera, distribuivano anche i condom e sono eccellenti perché hanno una resistenza notevole. Quindi per portare l’acqua dove non avevano bottiglie usavano i condom, puliti ovviamente. Nel condom ci metti l’acqua e lo usi come una boccia, per dire. Ma sottrarre i condom a qualsiasi persona è una violazione grave della sua possibilità di proteggersi e della sua incolumità fisica. Perché tanto più se è una persona tossicodipendente, se è una persona che ha bisogno di soldi e che sappiamo che non sarà il fatto che gli manca il condom a farla desistere. Cioè non può essere che uno che si occupa di sanità pubblica non pensi, quindi il sindaco di un Comune, a queste cose, che è responsabile della salute pubblica. E anche un presidente della Repubblica è  responsabile. Cioè sono tutti in scala responsabili e quindi io li accuso per questo.

Rachel Love: [01:33:43] Giustamente, per esempio un tipo come Donat-Cattin. Questa mancanza di prevenzione per tanti anni, o una campagna del ministero della Salute.

Pia Covre: [01:34:03] Sulle campagne italiane non ti sto a parlare perché vabbè, uno è uno schifo, l’altra è fallita, quell’altro—una roba.

Rachel Love: [01:34:14] Viene lasciato a gruppi come Comitato, come LILA, a fare questo lavoro?

Pia Covre: [01:34:22] Ma sai, loro non hanno finanziato. È questo il punto. Se loro avessero finanziato con tutti i soldi che hanno dato alle grandi compagnie di designer, di grafica, di pubblicità—perché questo hanno fatto nei primi anni. C’erano un po’ di spot televisivi, una cosa dove vedevi con la riga attorno, viola, queste cose orribili. Comunque, al di là di questo, hanno finanziato un sacco di queste campagne pubblicitarie dove, boh, non si sa se hanno avuto buon esito, cattivo esito, dove comunque erano stigmatizzanti, perché questa cosa incoraggiava lo stigma per molti anni. Poi a un certo punto hanno cominciato anche a rivoltare un po’, e negli anni più recenti qualcosa meno stigmatizzante è stato fatto. Per le grandi campagne, vere campagne contro lo stigma per la prevenzione ne hanno fatte le associazioni di base. Arcigay ha fatto, per esempio mi ricordo, a Bologna una campagna bellissima, ma anche sul fatto dell’omosessualità e dei diritti LGBTQ. Loro avevano soldi, hanno fatto delle belle campagne su queste cose. Però ci hanno lasciati, come dire, ad arrancare chiedendo qualche fondo europeo, qualche fondo locale, ma difficile. E localmente si è anche trovato qualche amministratore, assessore che capiva e che quindi aveva un orientamento giusto. Poi ti trovi come questo di Rimini, dove l’assessore era assolutamente una persona brava, positiva, che faceva la riduzione del danno, che credeva in queste cose. Gli altri, e la sua stessa polizia che veniva pagata da municipio, andava a portar via i preservativi. Me ne vengono in mente di tutti i colori, ne abbiamo avuti.

Rachel Love: [01:36:08] Sì, deve essere stancante.

Pia Covre: [01:36:14] Beh, io non mi sono mai arresa—cioè, è demoralizzante perché dici, “Che cavolo di società, guarda che cavolo di gente.” […] Però in realtà come attivisti io credo sempre ti senti spronato comunque a cercare di venir fuori e di tirar fuori il meglio, ovviamente, e di riprovarci sempre. Noi con la LILA di Milano, ad esempio, abbiamo fatto un sacco di unità di strada, di lavoro comune sulla prevenzione, andando a distribuire i preservativi e contattando le persone. Poi questo lavoro è stato molto fatto fra le categorie più vulnerabili, un po’ meno sulla società nel suo insieme, dove tutti si sentono al sicuro perché “Noi non siamo dei depravati, noi non siamo omosessuali, noi non ci facciamo il buco per la dose.” Poi però si ammalano lo stesso. Perché l’HIV lo puoi prendere. Quante volte abbiamo sentito di mogli che sono state infettate dai mariti o di mariti che sono andati magari con leggerezza in giro a scopare casualmente qua e là e poi portano a casa una malattia—[…] Ci sono stati casi alcuni casi, cioè che lo stigma della gente e l’odio della gente per le persone sieropositive su questa cosa dell’AIDS ha scatenato delle grandi violenze.

Per questo ti dico, adesso che è venuto il COVID, che io mi sia sentito anche un po’ così, perché ho visto talmente tanto, tanto stigma, tanto odio contro le persone che avevano la sfortuna di beccarsi l’Aids, e tanta marginalizzazione, proprio, che li hanno buttati fuori da tutti i posti, che non volevano gli insegnanti a scuola, cioè cose terribili, con gente che ha perso il posto di lavoro perché scoprivano che avevano l’AIDS. Adesso vediamo cosa fate col COVID che questa riguarda tutti perché è una malattia aerea.

Rachel Love: [01:43:35] Sarebbe bello se gli altri ragionassero anche un po’ così.

Pia Covre: [01:43:40] Pensavo che la lezione forse gli avrebbe un po’ migliorati. Invece no, ha migliorato poco, ha peggiorato tutto. C’è gente che è diventata ancora più cattiva. Che stronzi.


Transcript of interview on 13 April 2022

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