Interview with Corinna Rinaldi

Wednesday 22 February 2023

Born in Rome, Corinna Rinaldi, who is also an activist in militant feminist movements, is president of the Iniziativa Donne AIDS in Bologna, which she co-founded in 1989.


Rachel Love: [00:00:01] Ok, si parte, sono qua con Corinna Rinaldi, il 23 di aprile 2022, e io sono Rachel Love.

Corinna Rinaldi: [00:00:12] Io sono Corinna Rinaldi, presidente dell’associazione IDA, Iniziativa Donne AIDS di Bologna. IDA è un’associazione nata nel 1989, anno in cui si cominciava ovviamente a manifestare in maniera consistente l’epidemia da HIV/Aids. Ero sempre stato un’attivista femminista, quindi diciamo che i temi della salute e del corpo mi riguardavano molto da vicino. La pratica del partire da sé era comunque una pratica che ben si poteva sposare con una possibilità di accogliere le domande che stavano emergendo, anche se molto confusamente, all’inizio della pandemia di cura, di assistenza, di sostegno. La complicazione iniziale era per noi, dico individualmente, la domanda come equilibrare l’idea di attivismo con l’idea di assistenza. Perché per quelli che come noi venivano da movimenti rivoluzionari, l’idea del volontariato era legata a un mondo più cattolico, più assistenziale, meno politico, meno legato ai diritti, ma più legato a un livello assistenziale. Quindi abbiamo dovuto rielaborare, cercare di trovare una strada per mettere insieme un piano di risposta assistenziale con un piano di risposta di azione politica. Perché in questo momento della pandemia, la nascita di questi bisogni ci imponeva in qualche modo di trovare questa via, sennò saremmo rimaste associazioni solo politiche, ma non ci saremmo occupate di assistenza, sostegno e poi in seguito, di percorsi di empowerment per le persone coinvolte ai vari livelli, non solo persone sieropositive, ma anche familiari, amici, tutta la cerchia e il contesto in cui la persona da un momento all’altro si è trovata ad essere in una situazione complicata, violenta oltre che di malattia di un pensiero su la vita e sul tempo molto modificato. Quindi la cosa, che almeno con la mia associazione abbiamo fatto, è stata quella di non rispondere in modo emergenziale ma metterci a pensare cosa potevamo fare per un gruppo che era completamente fuori dai messaggi informativi, fuori anche dai messaggi più spaventosi, paurosi che in quegli anni in Italia circolavano. E quindi capire come potevamo arrivare alle donne, perché il fatto che non si parlasse delle donne alla fine anni ’80, primi anni ’90, per noi era molto preoccupante. Perché il corpo è uno, la sessualità è una, oppure ci sono varie sessualità, ma la sessualità è una nel senso che riguarda tutti e tutte, quindi abbiamo tutti una sessualità e questo ci portava a dire che bisognava guardare dentro a questo percorso che le donne potevano non poter intraprendere. E quindi ci siamo messi a lavorare con un gruppo di compagne e persone che facevano questo per lavoro, che si occupavano di comunicazione, e abbiamo fondato questo piccolo gruppo di azione femminista. Non era neanche così scontato, nel senso che il movimento femminista, anche col movimento gay che era il più attivo in quel momento, essendo tra i più colpiti, ha fatto alcune battaglie di vicinato. Diciamo in questa battaglia qui e in questa lotta qui non era così scontato che ci incontrassimo. A una parte anche del femminismo non piaceva neanche questa forma di attivismo e di contiguità con gli uomini. E quindi c’era ancora un pensiero separatista forte. L’intersezionalità, ovviamente, non era ancora comparsa e il transfemminismo non era ancora comparso. Però noi comunque fondammo questa piccola associazione femminista che pensava separatamente e agiva collettivamente. Il nostro lavoro era rivolto anche agli uomini però il gruppo pensante era tutto fatto da donne. Ci siamo messi a lavorare per creare uno strumento ad avere in mano e da dare in mano alle altre donne per dire, “Ci riguarda,” ma non per dirlo con, “Stiamo attente, c’è paura.” Cioè proteggiamo un po’ il nostro desiderio. […]

Le donne avevano un doppio problema. Intanto poi si è scoperto ovviamente che per un fatto fisico erano molto più infettabili che gli uomini. Quindi noi possiamo infettare meno e gli uomini possono infettare di più, come carica virale all’interno delle secrezione. Non voglio entrare in tecnicismi, però in realtà noi avevamo una conformazione fisica per cui questo era più facile. In più lo scoglio che noi vedevamo era che eravamo escluse in parte da tutti i messaggi informativi per motivi di tipo cattolico patriarcale, per l’assenza anche della sessualità femminile, innominabile. Ancora c’era una situazione che non permetteva di parlare della sessualità femminile. Al massimo si poteva parlare della sessualità maschile dicendo mettere il preservativo, cosa che qui si è potuto dire molto, molto più avanti. Ma mettere il preservativo, per fare un piccolo esempio, non funzionava per le donne perché le donne non mettono il preservativo. In più le donne avevano il rischio della doppia contraccezione. Nel senso che se una donna per non rimanere incinta utilizzava un contraccettivo, le stavi ponendo una domanda di usare due contraccettivi contemporaneamente, cosa molto onerosa da tutti i punti di vista. E quindi ci siamo un po’ posti il problema in una fase emergenziale pandemica di proporre ad esempio questa riflessione che con il nostro opuscolo abbiamo cercato di fare anche graficamente molto leggera, utilizzando un’idea di introduzioncina con Gertrude Stein sul cambiamento e sull’identità, ma anche l’immagine di Sonia Delaunay. Se si guardano i materiali dello stesso periodo, questo è totalmente altro. È un materiale molto leggero graficamente. Non volevamo sollecitare nessuna idea di paura e [volevamo] comprendere, mettere dentro, includere tutte le pratiche possibili sessuali. E alla fine ci siamo abbastanza riusciti.

Rachel Love: [00:09:00] E come l’avete distribuito?

Corinna Rinaldi: [00:09:02] Allora la cosa è stata questa, che noi anche lì desideravamo accompagnare sempre l’opuscolo ovunque andasse. Cosa abbastanza fantasiosa, perché non è possibile. Una parte l’abbiamo fatta, nel senso che la diffusione secondo noi doveva essere una pratica di scambio con le donne, ma non solo. Una delle prime cose che abbiamo fatto è proporlo a tutti i ginecologi e le ginecologhe di Bologna per potergli dire, “C’è un problema. Nel momento in cui voi consigliate un anticoncezionale sappiate che in questo momento c’è questo doppio problema, perché le donne si trovano in una situazione in cui devono scegliere come pratica di usare una doppia protezione ed è faticoso, quindi va articolato, pensato, proposto come riflessione.” Quindi siamo partiti un po’ da questo, l’abbiamo sempre accompagnato dove potevamo. Poi l’abbiamo ovviamente diffuso ovunque si presentasse, dalle biblioteche ai servizi sanitari, al carcere e così via.

Rachel Love: [00:10:22] Anche al carcere?

Corinna Rinaldi: [00:10:24] Sì, noi abbiamo fatto—dico noi perché in quel caso io, Lidia De Vido, e Diego Scudiero abbiamo portato avanti per otto anni un progetto che si chiamava Luoghi Comuni. E c’era una situazione di grande emergenza in carcere. C’era una situazione di paura—e anche per come la paura veniva proposta, cioè in quel momento erano tutti messaggi solo di paura, di stigma—e quindi una situazione di richiesta, diciamo anche di esclusione delle persone sieropositive ad alcuni contesti, contesti scolastici, contesti medici. A tutte le persone [sieropositive] anche se avevano un problema di un foruncolo al dito dovevano finire in malattie infettive, non potevano andare altrove. Quindi c’era una situazione di grande esclusione e di grande convergenza sullo stigma piuttosto che sulla persona. Abbiamo pensato di entrare in carcere sempre facendo sia uomini che donne, in quel caso non misti, ovviamente. Diciamo che lì la differenza di genere è molto rispettata, gli uomini e le donne e sono separati. Quindi abbiamo sempre fatto gruppi di discussione cercando di informare le persone detenute in maniera molto indiretta.

Rachel Love: [00:12:21] Perché?

Corinna Rinaldi: [00:12:23] Perché intanto non ci avrebbero fatto entrare in maniera molto diretta e perché tutto veniva visto come un qualcosa che poteva creare problemi e comunque hai un ritorno rispetto al fatto che nelle istituzioni totali—che noi abbiamo frequentato in quegli anni molto, cioè carcere e ospedali—l’informazione è qualcosa che rompe, che fa la differenza dentro una situazione come quella del carcere, dove mediamente anche il livello di istruzione e il livello di informazione e anche le persone con bisogni differenti in quel momento, magari fino a quando sono entrati in carcere non avevano la necessità di informarsi di alcune cose, poi dopo avendo più tempo a disposizione, sono anche più disponibili a farlo. Abbiamo sempre portato una piccola rassegna stampa che per noi è una sorta di chiave grimaldello per entrare a parlare di alcuni temi che potevano essere carcere e salute, poco stringenti. E questo ha fatto sì che fossimo disponibili per le persone che avevano bisogno di noi. In quel momento sapevano che noi comunque eravamo lì per questo, non foss’altro per i nomi della nostra associazione. Quindi i temi che trattavamo erano un po’ più ampi, non parlavamo di HIV e Aids, ma eravamo lì per quello, per tutelare i diritti delle persone sieropositive e per fare informazione. Anche se ovviamente la prevenzione non era così, potevi fare informazione ma non prevenzione, perché in carcere non possono entrare profilattici. Quindi non era possibile più di tanto. Poi parlare anche agli uomini di sessualità—

Rachel Love: [00:14:42] In carcere.

Corinna Rinaldi: [00:14:43] In carcere non era tanto possibile. Con le donne era più semplice, avevano meno remore e pregiudizi a parlare di sessualità anche tra di loro, storie d’amore, relazioni. Era differente.

Rachel Love: [00:15:07] Potevano comunque chiedere se avevano qualche domanda? Era uno spazio in cui potevano informarsi?

Corinna Rinaldi: [00:15:13] Avevano uno spazio collettivo in cui potevano fare qualunque domanda, sia uomini che donne e potevano anche chiedere un colloquio separato. E non era così individuabile perché tutti chiedevano colloqui separati in carcere, perché semplicemente cercavano di—

Rachel Love: [00:15:34] Avere un po’ di spazio, un po’ di pace.

Corinna Rinaldi: [00:15:37] Esatto, un po’ di pace, un po’ di, “Telefona a mia madre, parla con—” cioè temi che esulavano completamente ma che avevano a che fare comunque con la nostra idea di presa in carico e di cura. Quindi, nel momento in cui si stabilisce un rapporto di fiducia anche per altri temi, è possibile che questo aiuti anche a stemperare la possibilità di tutelare persone sieropositive che in quel momento erano dentro. Anche perché i livelli di arresti di tossicodipendenti, donne e uomini, in Italia era molto elevato in quel momento.

Rachel Love: [00:16:14]  Questo era primi anni ’90?

Corinna Rinaldi: [00:16:19] Sì, sì. A un certo punto facevamo questo. Almeno per quanto riguarda me, io ho cercato sempre di portare nelle azioni istituzionali e politiche che facevo questo tema dentro altri contenitori e altri spazi. Io facevo parte della Commissione Regionale Pari Opportunità, e abbiamo fatto un progetto sulle donne in carcere, donne anche malate. Sono stato in una commissione ministeriale Donna, HIV e Carcere. Abbiamo sempre avuto come associazioni una commissione comunale, cioè della città di Bologna, a momenti alterni, comunque, che poi alla fine ha prodotto anche l’apertura di un centro casa che ancora oggi è aperto e che risponde a una serie di servizi per le persone sieropositive. E quindi allargare, diciamo così, la parte assistenziale e tenerla sempre con la parte più di azione politica legata al cambiamento è stato quello che ha caratterizzato la nostra associazione. Poi, a un certo punto abbiamo aperto una sede per fornire anche servizi.

Rachel Love: [00:17:55] Qua a Bologna?

Corinna Rinaldi: [00:17:58] Sì, qua a Bologna, questo è un volantino. Facevamo servizi di consulenza sia per le persone sieropositive sia per chi voleva delle informazioni, ma anche per le persone che si prendevano cura e davamo indicazioni sui servizi cittadini, informavano sui diritti, sulle terapie, offrivamo uno spazio alle donne sieropositive se volevano incontrarsi tra di loro. Facevamo corsi di aggiornamento, di formazione e così via.

Rachel Love: [00:18:33] La sede è stata aperta quando?

Corinna Rinaldi: [00:18:36] La sede è stata aperta nel ’97. Sì, dopo diversi anni. Invece Luoghi Comuni, il progetto sul carcere, è iniziato nel ’93.

Rachel Love: [00:18:59] Ci veniva tanta gente alla sede? Tipo cosa era la vita quotidiana della sede?

Corinna Rinaldi: [00:19:06] Veniva tanta gente, ma calcola che ci avevano dato una sede a quarto piano altissimo, quindi un po’ problematico per le persone che erano già—Però comunque avevamo un telefono, facevamo dei corsi di aggiornamento, c’era stata una grandissima festa di inaugurazione con dei gruppi musicali. Quindi sì, era una cosa che è stata accolta e che via via andava curata. Ovviamente noi non avevamo nessun finanziamento tranne la sede e quindi anche questo era un po’ problematico. E però allo stesso tempo ti permetteva, diciamo politicamente, di—

Rachel Love: [00:19:50] Fare quello che volevate.

Corinna Rinaldi: [00:19:51] Sì, di agire in libertà e o almeno tentare di farlo. E quindi sì, veniva comunque gente. Sì, sì, sì. È stato un momento aggregativo quello della sede, certamente. E poi niente, abbiamo fatto varie campagne informative per le donne in vari periodi.

Rachel Love: [00:20:15] E come funzionavano le campagne informative?

Corinna Rinaldi: [00:20:21] Beh, siccome c’erano dentro alcune compagne, alcune donne che si occupavano di comunicazione, facevamo un manifesto, oppure anche in collaborazione con altri–

Rachel Love: [00:20:34] Tipo la Lila?

Corinna Rinaldi: [00:20:35] Tipo per la Lila, oppure coglievamo l’occasione dell’8 marzo per ricordare che c’era in quegli anni questa faccenda. Le campagne che poi venivano fatte, almeno tentavamo anche di, come dire, sessuarle, che non era così scontato. Quindi, se ci proponevano qualcosa o un progetto, questo era comunque in parte il nostro obiettivo che fosse inclusivo di una serie di principi. E poi cos’altro?

Rachel Love: [00:21:20] Avete collaborato anche con i SERT.

Corinna Rinaldi: [00:21:25] Abbiamo collaborato con i SERT, prevalentemente per il carcere. Sì, sì.

Rachel Love: [00:21:31] Come funzionava?

Corinna Rinaldi: [00:21:34] Beh, funzionava che ci facevano un po’ da consulenti e un po’ da ponte. E poi c’era un problema, nel senso che a un certo punto noi abbiamo voluto capire se il test che era anonimo, quindi poteva essere fatto dentro con il primo arresto quando una persona entrava. Quindi c’è stato un po’ un passaggio di tipo formale e legale rispetto al diritto alla privacy. E ce ne siamo un po’ occupati con loro, cercando di scioglierlo un pochino. Poi abbiamo fatto delle battaglie in carcere che poi ci hanno portato all’espulsione, diciamo, legate al diritto alla salute, legato al cibo, perché dentro i carceri c’è sempre un problema di ditte che producono dove tu puoi comprare, un grande business. In tanti carcere c’è stato, ancora c’è, quindi non è una cosa che sia superata.

Rachel Love: [00:22:53] Tipo le persone che lavoravano e non venivano pagate?

Corinna Rinaldi: [00:23:00] No, è che la ditta che vinceva l’appalto aveva dei prezzi carissimi rispetto all’esterno e invece dovrebbe avere un prezzo legato al più vicino supermercato della zona, quindi una sorta di estorsione, ecco, un furto che veniva fatto ai danni delle persone che avrebbero potuto nutrirsi meglio o curarsi meglio, mangiare meglio. E quindi questa fu una battaglia dalla quale noi non potevamo comunque tirarci indietro perché aveva a che fare con la salute e la qualità della vita, quindi temi che noi portavamo però che infastidì molto la parte istituzionale. Fu un po’ il passaggio. Ci sospesero per diversi mesi e, come tu sai, nelle associazioni, se un’attività la sospendi per tanti mesi, ritrovare l’equilibrio è un po’ complicato. Insomma, dopo ci siamo occupati sempre di persone detenute che in realtà uscivano perché non stavano più bene, quindi persone sieropositive per tutte le questioni di salute, sanitarie o legali. E questo avviene ancora oggi.

Rachel Love: [00:24:30] Tornando un po’ nel tempo, ti ricordi l’arrivo dell’Aids in Italia? Come si parlava? O come lo pensavi te?

Corinna Rinaldi: [00:24:50] Beh, io ti ripeto, essendo stata sempre un’attivista, anche prima a Roma e poi qui, quando mi sono trasferita per gli studi universitari, ero sensibile, comunque. Avevo un orecchio attento a una serie di temi, quindi. In più avevo moltissimi amici nel mondo gay, omosessuale. Quindi avevo una possibilità di sguardo molto ravvicinato. Però mi ricordo proprio le prime cose, legate appunto a questa idea che riguardasse solo i tossicodipendenti e solo gli omosessuali. Questo via via risulta molto violento. Però allo stesso tempo mi ricordo il disorientamento generale per l’arrivo di una pandemia. Allora all’inizio si chiamava sindrome da HIV/Aids, quindi via via come tutte le cose poi prende una forma. E questo spaesamento ha riguardato anche il mondo medico e il mondo anche ospedaliero. Perché la pandemia precedente, non dico che fosse stata la spagnola, c’era stato un altro virus, ma insomma, comunque erano in totale decadimento gli ospedali con i reparti di malattie infettive. E quello che abbiamo visto oggi è niente rispetto a quello che abbiamo visto allora perché le persone si trovavano a stare in camere separate, una situazione totalmente inutile per l’HIV/Aids e che anzi avrebbe dovuto essere un contesto molto più accogliente. E invece gli ospedali erano così, oltre che impreparati dal punto di vista scientifico e medico, totalmente impreparati, perché il sindrome, il virus era nuovo, sconosciuto, ma anche perché noi abbiamo una medicina che divide e seziona il corpo in tante parti. La sindrome HIV, invece, faceva esattamente il contrario. Poteva avere una patologia, poi poteva averne un’altra in contemporanea e così via, per questo è una sindrome. E quindi questo ha molto disorientato la classe medica. E questo si vedeva, nel senso che stavano molto arroccati sul potere che gli poteva venire da una formazione tipo accademico. Adesso questo è un po’ cambiato, ma insomma allora non avevano nessun tipo di approccio relazionale con i pazienti che potesse essere differente, accogliente o comprendere, anche perché i pazienti nella percezione generale erano persone che avevano trasgredito. Quindi ulteriormente sanzionabili, ulteriormente da tenere sotto controllo da tutti i punti di vista, il punto di vista della, “Prendi la terapia in un certo modo. Allora se hai un certo stile di vita non ti do una terapia, oppure comunque un po’ te la sei cercata.” C’era  sempre, un sottofondo, un giudizio. Insomma, l’empowerment per le persone coinvolte è arrivato dopo, a fatica. È stato un pensiero che non tutte le associazioni hanno fatto, solo alcune associazioni. C’è anche una diversità tra noi qui e altri paesi, insomma, in cui l’attivismo delle persone sieropositive è stato più evidente.

Rachel Love: [00:29:33] Infatti, perché è mancato un movimento come ACT UP in Italia, secondo te?

Corinna Rinaldi: [00:29:42] Perché c’erano strutture politiche e associative differenti che in qualche modo hanno fatto un po’ da filtro, nel senso che avevano una cultura politica legata alla rappresentanza. In fondo ce l’hanno fatto solamente le piccole associazioni a portare, diciamo, ad una situazione di rappresentanza e di empowerment delle persone coinvolte direttamente. Forse perché una struttura politica più rigida, più articolata, più faceva fatica a farsi attraversare o anche a fare un passo indietro per lasciare spazio a una situazione in cui—invece l’attivismo delle persone sieropositive sarebbe stato e poi è diventato [importante] per le terapie. Anche l’Italia in questo ha partecipato in parte, però, insomma, sempre non con grandi movimenti.

Rachel Love: [00:31:31] E cosa abbiamo qua [del materiale]?

Corinna Rinaldi: [00:31:34] Qui abbiamo una serie di piccole cose che ho trovato mettendomi a cercare per te, dei percorsi di formazione che ovviamente abbiamo fatto su appunto l’empowerment prevalentemente e le attività delle varie commissioni. Per esempio, questa commissione ministeriale è stata molto interessante perché nessuno si aspettava che ci proponessero di fare in qualche modo una cosa sull’HIV e essere in carcere per le donne. Invece, in quel momento è successo anche proposto da—Oddio, come si chiamava la ministra in quel momento?

Rachel Love: [00:32:22] Rosy Bindi?

Corinna Rinaldi: [00:32:23] No, Laura Balbo, che era una sociologa.

Rachel Love: [00:32:31] Quando avete cominciato a lavorare in carcere era anche una collaborazione con il ministero?

Corinna Rinaldi: [00:32:43] No, no. Questo è venuto dopo. Questi poi sono materiali invece di informazione che facevamo. Perché poi come raccolta fondi facevamo questo evento, Miss Alternative. Non so se te ne hanno parlato. Praticamente l’Arcigay Cassero organizzava ogni anno un evento di raccolta fondi per noi, le associazioni più piccole. Ed era una sfilata di uomini prevalentemente, poi c’è stata anche qualche donna in seguito. Ognuno faceva la sua sfilata di vestiti riciclati e si raccoglievano fondi. E ogni volta preparavamo dei materiali di informazione. Ed erano piccole campagne di informazione, oltre che di raccolta fondi, insomma. Questo è un incontro nazionale, “Parlarne con un’altra donna.”

Rachel Love: [00:34:04] Tipo un gruppo di auto aiuto?

Corinna Rinaldi: [00:34:08] No, era proprio un incontro tra associazioni per vedere come le donne potevano partecipare, a sostenere, a approfondire anche questa tematica, perché non era così scontato. Cioè le donne andavano bene per l’assistenza e per la cura, perché comunque questo c’è stato molto, nel senso che negli ospedali, nei rapporti ad esempio con le famiglie, era più facile che le donne si sostituissero [all’assistenza]. Si vede benissimo in questo film, come si chiama—

Rachel Love: [00:35:02] It’s A Sin? Quello inglese?

Corinna Rinaldi: [00:35:08] Si vede benissimo il ruolo delle amiche, delle donne. Anche qui io mi sono ritrovata.

Rachel Love: [00:35:18] A trovare le informazioni e creare questi momenti di solidarietà?

Corinna Rinaldi: [00:35:25] Sì, però anche svolgere un ruolo di cura molto più convenzionale per una donna in quel momento, anche per una donna alternativa, che rispetto alla famiglia delle persone che si ammalavano poteva fare da ponte rispetto agli altri compagni maschi. Probabilmente lì c’era un’aderenza a un ruolo precedente di tipo patriarcale, nato dentro la famiglia, che ci era funzionale anche a noi in maniera inversa. Nel senso che se una famiglia voleva parlare con una persona, perché le famiglie non tutte seguivano le persone che erano in ospedale, come immagino tu sappia. Quindi c’era sempre un po’ di ponte tra le famiglie e gli attivisti e le attiviste. Ed era un po’ più facile, forse, per le attiviste questo ruolo, mutuato appunto da una posizione dentro le famiglie. Perché siamo arrivate a parlare di questo? Questo era proprio un voler riflettere sulla cura, chi si prende cura, quali sono i bisogni, capire un po’ a che punto eravamo. Questo era un po’ più avanti. Questo è un giornale con cui partecipo che si chiamava “Donne e diritto,” diritto che ha a che fare sia col carcere che con la salute in generale. Questo invece è un progetto di prevenzione e strategie che avevamo presentato a un panel di un convegno. E questo qui invece è una ricerca regionale di un progetto europeo su l’utenza e sui servizi rivolti alle persone con HIV.

Rachel Love: [00:38:05] Come funzionavano anche le collaborazioni con altri gruppi come la Lila, Arcigay? C’è un esempio di qualche campagna che avete fatto insieme?

Corinna Rinaldi: [00:38:20] Eh sì. Beh, intanto, come dicevo, ogni anno facevamo o questo Miss Alternative, ed eravamo almeno quattro associazioni. Movimento Italiano Transessuali e la Lila, un gruppo che era nato successivamente al Cassero. E basta, non mi ricordo più. E facevamo appunto questa cosa qui. Poi abbiamo fatto delle campagne di sensibilizzazione di varia natura con la commissione comunale del Comune e a un certo punto avevamo un coordinamento tra tutte le associazioni di lotta all’Aids che c’erano in città e siamo riusciti anche a mandare in commissione regionale—dove c’erano prevalentemente medici, quindi volevamo rompere un po’ questa cosa—due nostri delegati, delegate, insomma, sempre almeno un uomo, una donna. Ovviamente anche lì si sono prodotte campagne su cui abbiamo potuto dire la nostra. Diciamo che di nostro grandi campagne non ne potevamo fare dal punto di vista economico, però, laddove venivano proposte diciamo delle azioni di questo tipo, noi cercavamo di segnarle con i nostri contenuti.

Rachel Love: [00:40:01] E quindi anche informare magari il modo in cui venivano fatte.

Corinna Rinaldi: [00:40:05] Sì. E quindi questi coordinamenti servivano a questo, ma non solo. Servivano anche a fare pressioni politiche su quello che succedeva. Ovviamente avevamo tutti delle segnalazioni da parte dell’utenza e avevamo tutti delle rivendicazioni da fare, soprattutto nei primi anni. Via via la domanda cresceva e c’erano parecchi problemi, problemi di assistenza, di luoghi dove dormire anche, di assistenza legale, assistenza sul lavoro. Cioè c’erano temi che non avevano a che fare solo con l’aspetto sanitario, ma con la parte sociale della pandemia che è stato forte. Non solo per il tipo di persona coinvolto, diciamo perché in Italia, è vero, sono stati coinvolti molti persone tossicodipendenti, non c’era una politica forte di riduzione del danno e di accoglienza di questo. Quindi i problemi c’erano e abbiamo tentato a nostro modo di affrontarli con i responsabili referenti che in quel momento c’erano. Però anche la sinistra all’inizio non è che fosse così disponibile a occuparsi di questo. Poi dopo un po’ una parte l’ha fatto, insomma, in alcuni luoghi è successo, però insomma, nei comuni più sensibili o nelle regioni più attente.

Rachel Love: [00:41:51] Ecco come si faceva la pressione politica? Si facevano manifestazioni o—

Corinna Rinaldi: [00:41:57] Anche, sì. Anche lettere, anche richieste formali, incontri, chiedendo di entrare in delle commissioni dove c’erano solo medici e decidevano tutto i medici. Commissioni politiche dove si entrava per altre strade, ma non per conoscenza vera del problema. E quindi facendo vari tipi di pressione. Anche manifestazioni, facendo anche dell’attivismo in piazza, nel senso banchetti informativi. Andavamo nei locali la sera a fare riduzione del danno. E questo creava comunque delle reti, non solo di solidarietà, ma anche di solidarietà politica e quindi di vicinanza. Ecco.

Rachel Love: [00:42:45] E c’era anche un bisogno di tradurre informazioni che arrivavano da altri paesi?

Corinna Rinaldi: [00:42:58] Sì, sì, anche tradurre informazioni che arrivano da altri paesi. Ovviamente per un grosso periodo, non c’era Internet, quindi andavamo di cose che arrivavano, di libri, di fax, di cose così, quindi. E lunghi scambi telefonici. Però una rete s’è creata anche in quel momento lì, perché poi, comunque la spinta emergenziale da un bel colpo no? E poi magari si diluisce però, insomma, in quel momento eravamo molto, molto motivati. E ovviamente, come è avvenuto anche in questa pandemia, in quel momento iniziale no, ma subito dopo un po’ si sono spostati anche i soldi. Quindi venivano fatti convegni, e lì ci imboccavamo un po’ e cercavamo di andare perché bisognava un pochino capire, anche perché non era tutto così chiaro. Non c’erano ancora le terapie fino al ’97, noi siamo nate nell’89, dall’89 al ’97 è stato un bel periodo di lutti, anche. Devi pensare a questo come un momento sì di lotta, sì di azione, sì di pensiero, ma anche di lutto, quindi elaborazione del lutto. Non abbiamo avuto molto modo di trovare forme per elaborare il lutto. Allora non avevamo neanche tanto tempo, però, anche per le nostre provenienze, appunto non cattoliche, prevalentemente non avevamo neanche tanti riti. L’elaborazione del lutto era un po’ una cosa più privata, più che collettiva, che magari sarebbe stato meglio poterlo fare collettivamente. I riti servono per questo. Magari una maggiore condivisione avrebbe fatto sì che anche chi era più chiuso o chiusa rispetto a questo argomento poteva aprirsi o partecipare, essere più partecipi, e condividere. E invece questo un po’ è mancato in Italia. Non so se in altri paesi forse c’è stato un po’ di più.

Rachel Love: [00:45:56] Mi colpisce quest’idea che si doveva ragionare tipo un’assistenza che non fosse cattolica, un aiuto e sostegno alle persone, e anche un lutto e un ragionare con la morte che non fosse parte di una tradizione cattolica. Sembra una cosa difficile da gestire qua.

Corinna Rinaldi: [00:46:26] In alcuni momenti è stato molto difficile dal punto di vista dei passaggi più formali, non di pensiero. Nel senso come le persone venivano salutate e dove, se la Chiesa voleva, non voleva. Quindi ci sono stati anche problemi di ordine più concreti, diciamo. E però questo pensiero sull’associazionismo, per esempio—noi venivamo da percorsi che una volta venivano chiamati—molti di noi, insomma, non tutti, ovviamente, però alcune persone che hai intervistato sicuramente—venivamo da percorsi femministi ma anche extraparlamentari, come si diceva una volta. Quindi dal movimento del 1977 che era un movimento molto libertario. Questo da una parte ci ha favorito perché avevamo un’idea del corpo, della sessualità, dell’uso delle sostanze, da dove provenivano che ci ha aiutato. Dall’altra però non avevamo una cultura dell’associazionismo come associazionismo assistenziale legato alla cura, legato all’assistenza. E cioè avevamo un’idea dell’associazionismo solo di azione politica. Quindi ci siamo dovuti appunto inventare in qualche modo un equilibrio per non essere sussidiario allo Stato, cioè non fare il lavoro che lo Stato avrebbe dovuto fare per le persone, perché non volevamo farlo.

Rachel Love: [00:48:14] Comunque mancava questo.

Corinna Rinaldi: [00:48:18] Esatto. E quindi l’emergenza ha fatto sì che noi dovessimo trovare—alcuni di noi, non tutti, ovviamente, noi, la Lila, per esempio, lo posso dire con certezza sia Ida che la Lila. Io poi ho lavorato molto con Diego Scudiero che è un po’ il mio compagno di azione politica su questo, su cui mi sono sempre trovata benissimo, nel senso anche rispetto alle questioni che riguardavano le donne. Abbiamo dovuto trovare una strada per equilibrare l’attivismo che fosse anche di assistenza ma che non fosse assistenzialista con appunto promuovendo percorsi politici ma non solo politici intesi come stare e promuovere alcune cose, ma anche di empowerment e di sostegno differente alle persone. Questo è stato un processo creativo dal punto di vista dell’ingegneria politica e sociale e associativa, per quanto mi riguarda. Io, quando questo è iniziato, non avevo questo tipo di cultura. Me la sono dovuta costruire.

Rachel Love: [00:49:41] Una pratica di cura e assistenza che non fosse una cosa verticale ma orizzontale.

Corinna Rinaldi: [00:49:47] Sì, ma che non fosse sostitutiva di quello che gli enti pubblici, lo Stato e l’economia dovessero produrre per alcune persone. Quindi inizialmente non solo orizzontale in questo senso, che magari è venuto dopo, ma per fasi inventare una sorta di ingegneria associativa, architettura associativa che ti permettesse di non sentirti un sostituto di qualcosa, ma promotore e promotrice di diritti, di spazi, di pensiero. Anche se questo ovviamente è in parte ce lo siamo chiariti dopo, perché all’inizio non era così chiaro che stavamo facendo quello, eravamo un po’ di corsa.

Rachel Love: [00:50:46] Eh sì.

Corinna Rinaldi: [00:50:48] Sì, in quegli anni eravamo un po’ di corsa, tra lavoro, ospedale, carcere, riunioni, era un po’ una situazione.

Rachel Love: [00:50:59] C’erano vite in ballo, insomma, o almeno persone da aiutare.

Corinna Rinaldi: [00:51:08] Sì, persone da aiutare, sì.

Rachel Love: [00:51:10] Immagino che ci fosse una pressione che veniva con questo pensiero.

Corinna Rinaldi: [00:51:21] Sì. Però al contempo, ti ripeto, la pratica almeno acquisitissima, almeno per me, del partire da sé faceva sì che poi comunque alcune pratiche, non le volevo fare, quindi dovevo inventarmene altre. Non potevo essere come un’associazione cattolica che andava in ospedale ad aiutare un malato. Io dovevo fare questo se lo facevo, trovare la forma, decidere chi assistere, chi non assistere, perché ovviamente non si assistono tutte le persone che hanno bisogno. Perché non sei una associazione, appunto. E quindi capire come farlo, e capire tutto questo non è stato semplicissimo. Ovviamente puoi pensare a degli spazi di accoglienza proposti dal pubblico, una casa alloggio come ha fatto la Lila o il centro casa, come ha fatto l’azienda USL. Ci volevano anche cose più grandi, diciamo, ecco. E poi per fortuna, insomma, l’ospedalizzazione è diminuita.

Rachel Love: [00:52:35] C’è qualcosa che ritieni importante da ricordare sulla storia HIV e AIDS? È un domandona, magari.

Corinna Rinaldi: [00:53:02] Mah. No, forse no. Non mi viene in mente adesso una cosa di particolare importanza. È chiaro che si potrebbe approfondire, come sempre si fanno nelle storie, altri piccoli aspetti. Quello che penso è che ancora non si è trovata—almeno in Italia, la percezione che ho è che ancora ci sia lo stigma rispetto alle persone sieropositive. Questo è ancora una cosa su cui bisognerebbe lottare, questo sicuramente. Questa è una cosa che ancora bisognerebbe tenere intenzionata, è ancora una cosa che va cambiata, ed è molto legata a un’idea che censura, chiude, opprime in qualche modo le sessualità, la sessualità, e ovviamente i consumatori, l’idea delle droghe, l’idea del mercato, la mancanza di tutela dei diritti di persone che vengono in qualche modo sanzionate per i loro comportamenti. Quindi questo è ancora la tutela della salute che dovrebbe riguardare tutti, previsto dalla nostra Costituzione, ma questo attualmente non è vero.

Rachel Love: [00:54:39] E lo stigma fa sì che le persone pensano, “Ah, io non appartengo a questo gruppo, per cui non mi devo controllare, non devo fare il test.”

Corinna Rinaldi: [00:54:50] Certo, anche questo. Produce ulteriore possibilità di contagio, perché le persone si sentono libere di pensare che non fanno parte ancora di queste che continuano a essere categorie che in Italia, comunque, per le campagne che hanno fatto i ministeri, sono state fortemente penalizzate. Come se si fosse fissato un pensiero dal quale è difficile liberarsi, nonostante la pandemia poi abbia coinvolto tantissime donne, tantissime donne in Italia ma tantissime donne in Africa, dove ha fatto stragi. La popolazione eterosessuale è stata coinvolta ma ancora nell’immaginario rimane che è una pandemia, una sindrome che ha riguardato prevalentemente omosessuali e tossicodipendenti. Si è fissato in quello. E questo non aiuta ancora, però non c’è nulla che viene fatto a livello ministeriale per modificare questo tipo di politiche e di messaggi.


Transcript of interview on 23 April 2022

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